Dal momento che la cultura del lutto sta diventando il carburante del parlare e scrivere di musica – hai sentito? Se n’è andato anche…. –, a cuor leggero introduciamo la celebrazione di un artista che da una dozzina d’anni ha preso commiato, ma le cui opere sono nel novero degli evergreen per amanti del suono diverso e che ora è oggetto di un notevole omaggio documentaristico di cui vi invitiamo a prender nota. Lui è Mark Linkous, nell’ultima e più fortunata parte della sua carriera musicale noto come Sparklehorse, più uno pseudonimo che il nome di una band in realtà mai esistita, se non quando, di volta in volta, selezionava i collaboratori adatti ai suoi progetti.
Il documentario si chiama “This is Sparklehorse”, visibile previa pagamento di una cifra modesta su Vimeo e realizzato da due filmmaker britannici, Alex Crowton e Bobby Dass, che già collaboravano con Linkous quando era vivo e che dopo la sua morte hanno cominciato ad assemblare interviste e repertori, con la collaborazione della famiglia dell’artista e di Angela Faye Martin, amica e in questo caso sceneggiatrice di un lavoro definitivo per la storicizzazione di un uomo difficile, ma di un musicista memorabile. Perché una cosa va detta: siamo sicuri che se in passato avete avuto la ventura di ascoltare Sparklehorse, ne sarete rimasti talmente colpiti da avviarvi senza rinvii a questa visione, illuminante per avvicinarsi ancora di più a Linkous. Ma se invece il nome vi è nuovo, qualche informazione in più vi è dovuta: Mark era infatti un personaggio al tempo stesso unico, quanto aderente a una galleria di canoni riconoscibili.
Reduce da un’adolescenza scapigliata e viziosa su e giù per la Virginia (origine evidente dal suo soffice eloquio e dai suoi modi cortesi quasi fino all’affettazione, da giovane gentiluomo del sud, salvo l’irresistibile propensione a eccessi di ogni genere), infine si era convinto che solo la musica potesse essere per lui il possibile contesto di sopravvivenza e d’espressione.
Dopo una serie di tentativi falliti, a metà anni Novanta Mark infine si mette in proprio, si cala nell’identità tipicamente indie di Sparklehorse (prendendo alla lettera il nome scelto: in quanti video si fa immortalare con una testa di cavallo al posto della sua?) e comincia a pubblicare album che lo trasformano in un beniamino istantaneo della critica musicale americana e internazionale (“Good Morning Spider” e “It’s a Wonderful Life” i pezzi da novanta, in una scarna discografia di soli cinque titoli).
Il fascino di ciò che fa è smagliante, mescolando brevi composizioni di una cantilenante dolcezza, a struggenti melodie infantili popolate di apparizioni sovrannaturali, a selvagge esplosioni elettriche provenienti dal mai consumato tramonto del punk nella provincia americana, a passaggi di melodramma rumoristico, prodotti da quel caos che è sempre stato il compagno di viaggio della mente di Mark.
A guidare il tutto una voce fragile e indomita, su sullo sfondo panorami psichedelici cosparsi di echi d’ogni genere, dai Beatles ai Radiohead, da Tom Waits al country lisergico coltivato con stimabili compagni di sperimentazione: David Lynch, suo affezionato ammiratore e talvolta partner artistico, Danger Mouse, il producer più pazzo d’America e Jason Lytle (Grandaddy), l’artista più affine a Linkous nel dragare la musica americana come fosse una sterminata psiche collettiva. Sparklehorse diventa così una sigla di qualità e un laboratorio di rispettata originalità, ma è la vita vera che per Mark funziona prima a intermittenza e poi soltanto male: già nel ’96 si autodistrugge cadendo in un coma tossicologico che lo riduce su una sedia a rotelle e lo costringe a una dolorosa riabilitazione che non gli restituirà mai completamente l’uso delle gambe. A fare il resto provvedono la depressione, la separazione da Theresa, per vent’anni la sua consorte e un generale smarrimento alimentato dalle debolezze, che poco alla volta lo risucchia.
Secondo la vulgata, il suicidio del collega e fraterno amico Vic Chesnutt potrebbe essere stato il detonatore e l’esempio fatale: nei giorni in cui vive ospite di Scott Minor, uno dei suoi musicisti, a Knoxville, Tennessee, in quel Sud acculturato di cui è figlio e mentre vagheggia di trasferirsi laggiù e approntare un suo studio di registrazione, l’ennesima sbornia, le pasticche, forse una conversazione andata male con la moglie lo spingono a prelevare un fucile dall’armadio e a spararsi un colpo al cuore. Corre il 2010, Mark ha 47 anni, un album ancora inedito e questa deleteria confusione che lo trascina via. Se poteva esserci vicenda che generasse un cult hero, era questa.
E adesso, con educazione, tocco e ricchezza di materiali, questo documentario racconta le gesta e la tragedia di Linkous con grazia e acume. Le partecipazioni sono eccellenti: tra gli altri David Lynch, Ed Harcourt, Adrian Utley dei Portishead e Jason Lytle. Ci sono estratti di vecchie interviste all’artista, i suoi vecchi video con la loro soave estetica lo-fi e tanta musica che usciva da quella mente febbrile, congestionata, scintillante, destinata a implodere, per non esplodere.