L’idea di una coalizione di innovatori in vista delle elezioni europee nel 2024 – a partire dagli esempi esistenti di governi in Germania, Belgio e Lussemburgo – ha suscitato per ora limitate reazioni in Italia dove gli spazi delle culture politiche europee (il popolarismo cristiano, la socialdemocrazia, il liberalismo, l’ambientalismo) sono in pieno subbuglio e sia il popolarismo cristiano che il liberalismo sono rivendicati nello stesso tempo dal centro-destra e dal centro-sinistra. L’idea ha suscitato interessanti reazioni in Europa soprattutto nello spazio politico di quella che era una volta la cultura del popolarismo cristiano e che appartiene in buona parte oggi e sempre di più al conservatorismo economico e sociale.
Questa cultura è stata alla base del progetto europeo nato nella “piccola Europa” (Germania, Italia Francia e Benelux) e non è un caso che nella lista ristretta dei “padri dell’Europa” venivano inizialmente collocati solo esponenti di quell’area culturale come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi dimenticando tre esponenti di cultura socialista come Paul-Henry Spaak, di cultura liberale come Jean Monnet e di cultura federalista come Altiero Spinelli.
Per molti anni il popolarismo cristiano è stato egemone nei governi della “piccola Europa” in coalizione con i liberali e più tardi con i socialdemocratici con scelte politiche che univano all’idea della democrazia occidentale atlantista scelte economiche di quella che è stata chiamata poi nel Trattato di Lisbona la “economia sociale di mercato” essendo ancora lontani i tempi del cosiddetto “ordoliberismo”.
È oggi interessante notare che nessun capo di Stato (con funzioni governative) o di governo nel Consiglio europeo a nome dei paesi della “piccola Europa” appartiene al popolarismo cristiano.
L’Unione europea, come sappiamo, è uno strano soggetto politico in cui il confederalismo rappresentato dal Consiglio europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e da centinaia di comitati intergovernativi – dove si decide normalmente secondo il principio del consenso anche quando i trattati prevedono il voto a maggioranza qualificata o addirittura a maggioranza semplice – convive con il federalismo rappresentato dal Parlamento europeo – ma anche dalla Corte di Giustizia essendo i suoi giudici vincolati al principio della totale indipendenza dagli Stati di provenienza, dalla BCE dove si decide a maggioranza, dalla Corte dei Conti e da organi monopersonali come il Mediatore o l’OLAF senza dimenticare la nuova Procura europea (EPPO) – e con la Commissione europea di ispirazione monnettiana che è un ermafrodito strattonato dai governi e dal Parlamento europeo, a lungo considerata (più a torto che a ragione) come un segretariato del Consiglio, i cui membri provengono dalle maggioranze governative nazionali ma sono da esse indipendenti con un(a) presidente espressione invece di una maggioranza politica nel Parlamento europeo che non sempre coincide con quella dei suoi commissari.
Nonostante questa stranezza, le Comunità europee prima e l’Unione europea poi hanno fatto molti passi in avanti andando al di là del mercato comune e sviluppando parziali politiche comuni per rispondere a sfide non previste e non prevedibili ai tempi dei trattati di Roma e dotandosi fra le altre cose di una moneta unica, di una “carta dei diritti fondamentali” e di un provvisorio debito pubblico europeo con il Next Generation EU oltre che di un considerevole acquis communautaire dotato di regolamenti, direttive e decisioni che, nei settori di competenza dell’Unione europea, prevalgono sui diritti nazionali.
Per superare la logica delle risposte emergenziali (il governo dei flussi migratori, la sicurezza interna ed esterna, un’economia socialmente ed ecologicamente sostenibile, le risorse energetiche…), l’Unione europea deve tuttavia dotarsi di una sua capacità di governo per programmare il proprio futuro nel rispetto della democrazia e delle sue diversità sapendo che, se essa resterà uno strano soggetto politico, non potrà avere una capacità di governo per programmare il proprio futuro.
Per uscire da questo stato di cose, in vista e dopo le elezioni europee del 2024, possono essere percorse due strade alternative:
La prima consiste nel tentare di rendere coerente in tutte le sue istituzioni la dimensione confederale con una battaglia politica che coinvolga sia i livelli nazionali che quello europeo per far prevalere nel Consiglio europeo e dunque nel Consiglio dell’Unione europea maggioranze di ispirazione confederale o sovranista in occasione delle prossime elezioni nazionali che avranno luogo in Finlandia, in Estonia, in Grecia, in Spagna, in Slovacchia, in Polonia e in Bulgaria con coalizioni simili a quelle che governano in Polonia, Ungheria, Cechia ed ora in Svezia e in Italia dove il PPE ha deciso di sostenere coalizioni a trazione sovranista, per far vincere alle elezioni europee una maggioranza parlamentare confederale o sovranista e per eleggere poi una Commissione dello stesso colore di questa maggioranza. La stranezza politica del soggetto europeo renderebbe tuttavia impervia questa strada perché in qualche “provincia dell’impero sovranista” e cioè in qualche Stato membro c’è e ci sarà una maggioranza europeista che esprimerà un(a) commissario(a) europeista, i giudici della Corte difenderanno nelle loro sentenze il primato del diritto europeo e la BCE agirà governando la politica monetaria nel pieno rispetto della sua indipendenza dai governi nazionali.
A questi equilibri o squilibri istituzionali si aggiungeranno ed anzi si sovrapporranno gli interessi nazionali che spesso non coincidono ed anzi divergono nella ricerca di un accordo sulla politica economica e monetaria fra paesi dell’euro e paesi al di fuori dell’euro, sulle politiche di bilancio fra paesi contributori netti e paesi beneficiari, sulle politiche migratorie fra paesi di prima accoglienza e paesi con frontiere ermeticamente chiuse, sulla transizione ecologica fra paesi con forti e paesi con deboli politiche ambientali, sulla politica estera fra paesi più o meno sensibili all’attrazione verso l’Est o verso il Sud. L’Unione europea sarebbe presto paralizzata dai veti incrociati e gli interessi nazionali non otterrebbero risposte adeguate a livello europe
La seconda strada consiste nel tentativo di far prevalere quella che noi abbiamo chiamato “la via pragmatica verso il federalismo europeo” lavorando alacremente e nei prossimi mesi su un programma di idee e di politiche europee per pianificare e governare il futuro che si traduca a termine in un patto costituzionale e in un nuovo trattato secondo la logica della “linea di divisione” – a cui ci richiamava il Manifesto di Ventotene – fra innovatori e immobilisti o, se volete, fra federalisti e nazionalisti.
Affinché le cittadine e i cittadini europei siano consapevoli della scelta europea che dovrà emergere dalle elezioni europee nel 2024, gli innovatori dovrebbero tradurre il programma di idee e di politiche nella condivisione di un(a) candidato(a) comune alla presidenza della futura Commissione europea proponendo di unificarla con la presidenza del Consiglio europeo con una leadership di coalizione secondo il metodo suggerito da Tommaso Padoa Schioppa e dalla Fondazione Delors nel 1999 e non nella contrapposizione di Spitzenkandidaten indicati dai singoli partiti europei destinati ad essere l’espressione di una maggioranza relativa come fu suggerito da Martin Schulz nel 2018 e come fu tradotto poi in una proposta dei gruppi politici nel Parlamento europeo.
Se sarà impossibile trovare un accordo su una comune leadership di coalizione, i partiti europei e/o le liste nazionali che condivideranno un programma di idee e di politiche europee destinato a tradursi in un patto costituzionale almeno potrebbero impegnarsi ad eleggere solo il candidato o la candidata del partito che avrà più voti fra coloro che avranno sottoscritto quel programma essendo consapevoli che la forza (o la debolezza) elettorale di quel programma sarà legata alla scelta o alla non-scelta di un’unica leadership. Varrebbe la pena che i promotori della via pragmatica al federalismo europeo intervengano nelle prossime campagne elettorali nazionali il cui significato sarà europeo e non nazionale.
La strada di una coalizione di innovatori è irta di ostacoli perché l’idea di “contarsi” alle elezioni europee come se fosse un secondo appello trasformando il confronto transnazionale in una contrapposizione per la conquista del governo nazionale su temi nazionali è purtroppo molto diffusa nei partiti mentre il confronto tra programmi europei è pressoché inesistente.
L’idea di una coalizione di innovatori come risposta all’ipotesi di una coalizione di centro-destra emersa nei due colloqui romani fra il capo-gruppo europeo del PPE Manfred Weber e la presidente dei Conservatori e Riformisti europei Giorgia Meloni ha sollecitato nel frattempo l’attenzione negli ambienti del PPE in Germania e in Polonia dove CDU e CSU da una parte e la Piattaforma Civica dall’altra hanno escluso una alleanza elettorale fra PPE e ECR ricordando che sia Ursula von der Leyen che Roberta Metsola sono state elette grazie alla grande coalizione fra popolari, socialdemocratici e liberali, che il sostegno dell’ECR è stato nei due casi ininfluente e che alle prossime elezioni legislative in Polonia la Piattaforma Civica che aderisce al PPE e il Partito Diritto e Giustizia al governo dal 2015 che aderisce a ECR si presenteranno con liste contrapposte.
Lo stesso Manfred Weber ha cercato del resto di fare un goffo passo indietro affermando che la collaborazione fra PPE e ECR si realizza case by case come sta avvenendo in queste settimane sulla direttiva relativa alla prestazione energetica negli edifici con un’azione di vero e proprio filibustering che ignora l’azione di S&D, Renew Europe e Verdi per ottenere un miglior equilibrio fra aspetti economici, ambientali e sociali, come è avvenuto ancor sul tema del rispetto dello stato di diritto in Polonia e Ungheria, sul progetto di un nuovo Protocollo sociale e come sta avvenendo nei lavori della commissione affari costituzionali sulla questione del primato del diritto dell’Unione europea.
Appare così chiaro che il futuro dell’Unione europea in occasione delle elezioni europee nel 2024 sarà legato alla scelta fra la prevalenza della dimensione confederale – e cioè di un’estensione delle competenze degli Stati membri, di un indebolimento del ruolo del Parlamento europeo e della Commissione, di un congelamento della Carta dei diritti e dell’attuazione del Pilastro Sociale, di un rallentamento della transizione ecologica, di un rinvio sine die del Patto sulla migrazione e di una permanente complicità con chi viola lo stato di diritto e il principio del primato del diritto europeo – e la via pragmatica del federalismo europeo che richiederà un’azione convergente di movimenti politici, di attori della società civile, di portatori di interesse nel mondo della lavoro e della produzione sostenibile, di reti giovanili, di realtà innovatrici nella ricerca e nell’università per costruire una coalizione di idee e di progetti con l’obiettivo di tradurli in un patto costituzionale europeo.
Per far cambiare rotta all’Unione europea sarà necessario far cambiare rotta ai partiti e nei partiti europei sapendo che la scelta radicale fra il confederalismo e il federalismo potrebbe aprire la strada a inimmaginabili divisioni negli spazi politici che sono per ora chiusi nella difesa di ideologie superate dalle nuove sfide della società europea e che l’Unione europea si integra o si disintegra solo se le elezioni europee del 2024 saranno colte e sfruttate come una occasione irripetibile per una sua riforma profonda che eviti il rischio di una paralisi fatale impossibile da sostenere.