Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 55 di We – World Energy, il magazine di Eni
Le transizioni energetiche che nei prossimi anni dovranno necessariamente realizzarsi in tutto il mondo comporteranno un mutamento radicale degli scambi internazionali di prodotti legati all’energia. L’Agenzia Internazionale dell’Energia di Parigi ha quantificato questa evoluzione in due suoi scenari (v. grafico a pag. 39). Oggi la maggior parte degli scambi energetici consiste di petrolio e prodotti petroliferi. Il petrolio è da decenni la principale merce scambiata a livello globale. Il suo peso sul totale del commercio internazionale varia al variare del prezzo: nel 2019 ne rappresentava da solo il 9,5 percento.
Il metano e il carbone seguono a notevole distanza, con una quota degli scambi globali inferiore al 2 percento per il primo e dell’1 percento il secondo. Gli scambi internazionali di elettricità sono minimi a livello globale: soltanto all’interno dell’Unione Europea le reti nazionali sono interconnesse e sincronizzate e i paesi membri scambiano quantitativi non indifferenti di elettricità (ma sempre limitati, in media il 15 percento della produzione). Con il declino dell’utilizzo di fonti fossili, lento o rapido che sia, questa composizione è destinata inevitabilmente ad evolvere. In generale, il settore energetico svolgerà un ruolo meno importante nel commercio internazionale, principalmente perché l’elettricità è difficile da trasportare a grande distanza; e i combustibili fossili sono destinati a perdere di importanza nel complesso del commercio di prodotti energetici.
L’evoluzione degli scambi di petrolio e gas
Questa prospettiva pone numerosi interrogativi. Il primo è quello relativo al finale di partita per gli scambi di petrolio e gas. Secondo una visione corrente, accettata anche nei rapporti della IEA, la produzione di petrolio e gas è destinata a essere sempre più concentrata nei paesi con maggiori riserve e minori costi di produzione. Questa convinzione si basa sull’attesa che la domanda di petrolio e gas declini più rapidamente dell’offerta. In tal caso i prezzi tenderebbero a essere bassi, e gli investimenti nella ricerca e sviluppo di nuove riserve sarebbero scoraggiati. Questo porterebbe a una crescente dipendenza dei paesi industriali (Cina e India incluse) dalle importazioni dai paesi dell’OPEC o dalla Russia.
Tuttavia, l’esperienza degli ultimi anni dimostra che le cose potrebbero andare molto diversamente. Gli investimenti delle maggiori imprese petrolifere internazionali sono stati scoraggiati dalla convinzione che il settore è ormai in declino, e dalle critiche suscitate dalla crescente preoccupazione per il cambiamento climatico. In conseguenza, l’offerta si è ridotta più rapidamente della domanda (che non si è ridotta affatto: anzi continua ad aumentare), e i prezzi hanno teso verso l’alto.
Il fatto è che, anche nell’ipotesi che la domanda raggiunga un massimo prima del 2030 e poi inizi a scendere lentamente, il petrolio e il gas saranno eliminati inizialmente da quegli utilizzi per cui sono più facilmente sostituibili, in particolare con l’elettricità. Gli utilizzi per cui la sostituzione è più difficile (mobilità, trasporti pesanti terrestri e marini, aviazione, petrolchimica) continueranno più a lungo e sono essenziali per la vita economica di ogni paese. Questo significa che per molto tempo la riduzione della domanda di petrolio e di gas non si tradurrà in una analoga riduzione dell’importanza strategica delle residue importazioni. Il problema della sicurezza degli approvvigionamenti non perderà di importanza, anzi potrebbe diventare ancora più serio, perché il sistema perderà inevitabilmente di flessibilità.
È dunque molto problematico ipotizzare che sia accettabile la dipendenza da un numero sempre minore di fornitori, la cui volontà di rispettare le norme internazionali e la risoluzione pacifica delle controversie è a dir poco dubbia. Questo significa che considerazioni politiche e di sicurezza spingeranno ad incoraggiare investimenti nell’esplorazione e sviluppo di nuove risorse, purché in paesi diversi dai maggiori esportatori, e preferibilmente politicamente allineati sul rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani.
Questi investimenti potrebbero dover essere protetti dalla concorrenza dei principali produttori, per evitare appunto che si arrivi ad una eccessiva dipendenza da essi. Ne consegue che il mercato internazionale del petrolio e del gas potrebbe essere segmentato, con prezzi diversi a seconda della valutazione politica del paese di provenienza. Il tetto al prezzo del petrolio russo che il G7 tenterà di imporre a partire da dicembre 2022 può essere visto come una prova generale in questa direzione.
Gli scambi di prodotti petroliferi e il futuro della raffinazione
La progressiva riduzione della domanda di petrolio avrà anche inevitabilmente delle conseguenze a livello industriale. Sembra inevitabile che si accentui una tendenza, che in Europa è già presente da decenni, alla riduzione della capacità di raffinazione, quindi una maggiore dipendenza dalle importazioni di prodotti anziché di greggio. Tuttavia non tutti i prodotti soddisfano ogni componente della domanda: la benzina non può essere utilizzata al posto del gasolio, del cherosene per l’aviazione, della nafta per la petrolchimica e via discorrendo. Ma un barile di petrolio di una data qualità trattato in una raffineria con specifiche caratteristiche produrrà una combinazione di prodotti che non è facile da cambiare.
Se dunque la domanda di un prodotto in particolare si riduce più rapidamente della domanda di altri prodotti, le raffinerie possono avere difficoltà ad aggiustare la composizione della produzione a quella della domanda. Questo problema esiste già oggi con riferimento in particolare al diesel, per il quale la capacità di raffinazione europea è insufficiente a coprire la domanda, e che fino ad oggi è stato importato dalla Russia per quantitativi molto importanti.
A valle della raffinazione, è probabile che sorgano A valle della raffinazione, è probabile che sorgano problemi crescenti all’industria petrolchimica, che in Europa si basa principalmente sul cracking della nafta. Se le raffinerie europee non produrranno più sufficienti quantitativi di nafta, è impossibile che la petrolchimica di base possa sopravvivere sulla base di nafta importata, l’intero comparto sarà trasferito verso i paesi produttori che si stanno integrando a valle nella raffinazione e nella petrolchimica (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) o in paesi importatori che hanno investito in anni recenti in gigantesche nuove raffinerie (India e Cina). È dunque da attendersi che gli scambi internazionali consistano sempre meno di petrolio greggio e sempre più di prodotti petroliferi o petrolchimici.
L’impatto dell’elettrificazione
Come già accennato, attualmente gli scambi internazionali di elettricità sono pressoché irrilevanti, eccetto che nell’Unione Europea. Nel resto del mondo, quasi tutti i paesi sono molto riluttanti ad accettare interconnessioni elettriche con i vicini, principalmente per timore che questo si trasformi in legami di dipendenza con implicazioni di sicurezza. Le reti non sono spesso bene interconnesse nemmeno all’interno degli stati: per citare un esempio macroscopico, negli Stati Uniti il Texas non ha – deliberatamente – alcuna interconnessione elettrica con gli altri stati, e in questo modo si sottrae alla regolazione delle autorità federali.
In questo caso si tratta di una sorta di dichiarazione di indipendenza elettrica, ma in molti altri casi le reti semplicemente non sono abbastanza sviluppate, perché aumentare la capacità di trasmissione costa caro e spesso incontra la resistenza in Asia Centrale o in Africa Subsahariana) ai consumi delle regioni densamente abitate, come la Cina orientale o l’Europa. Questa seconda visione porterebbe evidentemente ad importanti scambi internazionali di energia elettrica, ma è di assai difficile realizzazione, tanto per gli evidenti ostacoli geopolitici quanto per gli elevati costi e i rendimenti dubbi, e comunque molto differiti nel tempo.
La prospettiva di un mercato internazionale dell’idrogeno
Molto entusiasmo circonda la possibilità che l’elettricità verde possa essere esportata internazionalmente sotto forma di idrogeno o suoi derivati, come l’ammonica o il metanolo. Il ragionamento è simile a quello che si fa per le grandi interconnessioni elettriche: le fonti rinnovabili non sono egualmente distribuite nel mondo, al contrario ci sono regioni dove queste sono molto più abbondanti mentre la popolazione è scarsa e la domanda locale di elettricità limitata. Sarebbe dunque possibile produrre elettricità verde a basso costo in queste regioni ed utilizzarla per produrre idrogeno dall’acqua attraverso l’elettrolisi. I paesi che maggiormente sperano nell’idrogeno come soluzione per la decarbonizzazione della loro industria pesante, come la Germania o il Giappone, contano esattamente di aumentare rapidamente le loro importazioni di idrogeno da fonti lontane, come l’Australia, il Cile o l’Arabia Saudita.
Questo entusiasmo si riflette nei documenti ufficiali e nei rapporti della IEA, ed è ben rappresentato nel grafico a pag. 39, dove nello scenario Net Zero al 2050 l’idrogeno rappresenta il 35 percento del commercio internazionale di prodotti per l’energia. Tuttavia, ad un esame più approfondito ci si accorge facilmente che la prospettiva non è così rosea come può apparire a prima vista. In effetti la maggior parte dei paesi che potrebbero diventare grandi esportatori di idrogeno sono oggi ancora fortemente dipendenti da elettricità prodotta da combustibili fossili, per cui non è molto razionale considerare “verde” dell’idrogeno prodotto da energia rinnovabile quando fonti fossili continuano a soddisfare la domanda interna del paese.
Si dovrebbe iniziare a ragionare di produrre ed esportare idrogeno soltanto una volta completamente decarbonizzata la produzione di elettricità per i consumi interni. In secondo luogo, l’idrogeno così prodotto ed esportato sarebbe relativamente caro, e non permetterebbe di remunerare l’elettricità rinnovabile di partenza a prezzi elevati. Si legge talvolta che l’Australia o il Cile potrebbero diventare l’Arabia Saudita dell’idrogeno, ma mentre l’Arabia Saudita vende il greggio a circa otto volte il suo costo di produzione, nel caso dell’idrogeno il margine sarebbe minimo, se non addirittura negativo: con l’idrogeno non si diventa ricchi.
Infine, perché esportare idrogeno, ammoniaca o metanolo piuttosto che trasformare localmente questi prodotti di base in prodotti a maggiore valore aggiunto? Se la Germania importasse idrogeno sotto forma di ammoniaca non avrebbe senso ritrasformare l’ammoniaca in idrogeno, perché la maggior parte dell’idrogeno oggi prodotto da fonti fossili è usata per produrre ammoniaca. E allora, perché importare ammoniaca per trasformarla in fertilizzanti o esplosivi in Germania quando questa trasformazione potrebbe avvenire direttamente alla fonte? Sono queste perplessità che inducono a ritenere che il commercio internazionale dell’idrogeno difficilmente potrà svilupparsi al ritmo implicito nello scenario della IEA.
Gli scambi di metallo e attrezzature elettriche
La prospettiva di una rapida elettrificazione degli utilizzi di energia avrà certamente implicazioni importanti anche per la produzione e gli scambi dei metalli e attrezzature elettriche. Su questo punto è però anche molto alta l’incertezza: sappiamo che enormi investimenti dovranno essere realizzati per mettere in produzione nuove miniere di rame, nickel, litio, cobalto, manganese, argento, bauxite e metalli rari, ma non possiamo essere certi che sia possibile aumentare la produzione al ritmo ipotizzato dagli scenari di elettrificazione, né in quali paesi le nuove produzioni saranno realizzate.
Sarebbe difficile estrapolare nel futuro la situazione attuale, caratterizzata dal forte dominio della Cina nella raffinazione dei metalli e nella produzione di attrezzature elettriche fondamentali quali le batterie o i pannelli solari, ma in verità in quasi tutta la vasta gamma del macchinario elettrico. Questa situazione dovrà certamente essere corretta per evitare che diventi un elemento di rischio economico e di sicurezza.
L’Inflation Reduction Act recentemente approvato negli Stati Uniti è un deciso passo nella direzione di una rivitalizzazione della produzione negli Stati Uniti, ma è stato criticato come protezionistico dai paesi europei. Questi, a loro volta, fanno a gara per attirare investimenti in gigantesche fabbriche per la produzione di batterie, mentre sembra più arduo che possano recuperare terreno per i pannelli solari ed i motori elettrici. Non sarà facile arrivare ad uno sforzo coordinato e cooperativo per lo sviluppo di produzione di metalli e attrezzature, in alternativa alla Cina.
Rimane il pericolo che la difficoltà del compito e l’impatto ambientale – soprattutto delle nuove miniere e della raffinazione dei metalli – finisca con il costituire un freno importante alla penetrazione dell’elettricità nella soddisfazione di bisogni quali il riscaldamento o la mobilità. Il potenziale di conflitti locali ed internazionali, di violazione dei diritti umani e di nuovi danni ambientali locali è molto elevato. Sarebbe un miracolo se si riuscisse ad evitare questi problemi. Ne consegue che, se da un lato sembra inevitabile che il commercio internazionale di questi prodotti cresca rapidamente, dall’altro è assai probabile che il cammino risulti arduo e difficile.
Verso una nuova distribuzione globale dell’industria
Assisteremo certamente a profondi cambiamenti negli scambi internazionali legati all’energia, ma bisogna guardarsi da conclusioni affrettate e semplicistiche. A chi scrive sembra inevitabile che la necessità della decarbonizzazione dell’energia porti anche a profonde modifiche nella localizzazione di tutti quei comparti industriali che maggiormente sono legati alla disponibilità di energia in generale, o di specifiche forme di energia. Storicamente, la localizzazione dell’industria è stata fortemente condizionata dalla disponibilità di energia. L’industria tessile si è sviluppata in prossimità di corsi d’acqua capaci di fornire la necessaria energia meccanica.
Molte industrie si sono sviluppate in prossimità di risorse di carbone per tutto il tempo che questa è stata la principale fonte fossile. È soltanto con l’avvento del petrolio, straordinariamente versatile e facile da trasportare, che l’industria ha potuto essere localizzata piuttosto in prossimità del mercato anziché della fonte di energia. Le fonti rinnovabili sono disponibili in misura molto diseguale e l’energia prodotta è difficile da trasportare: esisterà sempre un divario di prezzo importante tra località con abbondante potenziale di energia rinnovabile e località meno favorite da questo punto di vista. Tra le fonti decarbonizzate, solo il nucleare offre una libertà di localizzazione prossima a quella del petrolio.
Le transizioni energetiche porteranno quindi con ogni probabilità ad una riduzione del commercio internazionale di energia, e ad un aumento dell’importanza di scambi di prodotti ad alta intensità di energia. È una prospettiva che mette ulteriormente in questione il futuro dell’industria in Europa, e sottolinea l’importanza del riciclaggio dei materiali, dell’economia circolare, e di nuove tecnologie che riducano l’intensità energetica delle trasformazioni industriali.
Giacomo Luciani è tra i massimi esperti italiani di geopolitica dell’energia, Giacomo Luciani è Scientific Advisor per il Master in International Energy alla Sciences Po di Parigi e Adjunct Professor presso il Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra.