È una scalata alla montagna, il menu di Niko Romito. È un Everest che ti si para davanti e non ti lascia scelta: salire, e tentare di comprendere una cucina che è sentimento e assoluto, che è conquista e pensiero. Sensazione e improvviso. L’amaro e il piccante come fil rouge, astringenza e prove da superare. L’acido anestetizza l’amaro. Il dolce e rassicurante, il sapido, sono sapori che non percorriamo.
Una cena nel tristellato di Castel di Sangro, cuore dell’Abruzzo e centro dell’Italia, uno dei posti meno raggiungibili ma più desiderati dai gourmet del mondo, è un percorso entusiasmante e mai scontato, accompagnati da un servizio preciso, didascalico e discreto, guidato dalla vulcanica e concreta sorella dello chef, Cristiana, che sa accogliere senza mai mettersi in mezzo tra noi e le portate che si susseguono a ritmi sostenuti. Il menu degustazione, in questa versione tutto dedicato ai vegetali, è lungo e il saliscendi di temperature, ritmi, consistenze, sapori devono avere la giusta cadenza e le uscite non possono interrompere quella che a tutti gli effetti è un’unica sequenza di gusto. Nessuna portata esiste senza quella precedente e quella successiva, e tutto è pensato millimetricamente, per far vivere all’ospite un pasto che lo farà pensare, lo farà capire, spesso lo farà interrogare e meditare. Di sicuro nulla sarà mai banale, qui, e nulla vi lascerà mai indifferenti.
A questa tavola si arriva senza amuse bouche, senza fronzoli, colmi di aspettative: tutto è perfettamente concentrato sul sapore e su questa esperienza che si vive e si conquista un passo alla volta, una pietra alla volta, proprio come in un’arrampicata a tratti pericolosa, a tratti soddisfacente, a tratti ostica ma sempre di enorme soddisfazione.
Chiunque, prima di venire qui, ha dei preconcetti: perché Romito è universalmente considerato uno chef difficile da capire, che spesso anche per gli addetti ai lavori può risultare complesso nelle sue riflessioni. Sul sapore, però, la complessità resta tutta in cucina: a tavola arrivano piatti assoluti nella loro intensità, precisi nella loro essenza. Talmente tanto pensati e costruiti in cucina da diventare di una semplicità disarmante in sala. Semplicità mai banale, ovvio: concentrazione di struttura e di consistenza che esalta la materia prima che non è semplicemente protagonista, ma strumento di pensiero e di azione. Si “toglie” per concentrare, si complica in cucina per semplificare in tavola e arrivare al sapore puro.
Le temperature, le consistenze, i bocconi sono una costante sfida al palato. Che deve abituarsi all’amaro delle cime di rapa, all’astringenza del limone, al freddo delle arachidi e rimane spiazzato e confuso ad ogni nuova portata. Servono pazienza, e connessione: per questo, forse, non ci sono sovrastrutture, non c’è nulla nella sala del Reale e nel servizio di questo ristorante che possa distrarre dal rito.
Questa non è una cena da Instagram: e va meditata, prima di raccontarla. Esattamente come sono stati pensati e modificati nel tempo questi piatti, così puri e raffinati, eppure così complessi nella tecnica di realizzazione. Questa tecnica sublime portata all’esasperazione ricorda i plié e i grand battement alla sbarra, per i ballerini di danza classica. Quella fatica di andare incontro alla perfezione, quell’impegno portato all’estremo per raggiungere un risultato ideale utopico, ma ben chiaro nella mente di chi lo compie.
Ha senso venire qui per scoprire un percorso, leggere una storia, aprire un libro fatto di Abruzzo, di riflessione, di grandissima tecnica al servizio del gusto e della sperimentazione. E si capisce il pensiero intimista dello chef solo se si coglie il suo distacco dal mondo, in questo eremitaggio consapevole in questo centro distaccato dal resto d’Italia.
Questa non è una cena per tutti: è un percorso che si porta avanti se si desidera comprendere il mondo rigoroso e riflessivo di uno chef capace di cogliere spunti diversi, e creare bocconi di pensiero edibile.
Rimanere a dormire in questo ex monastero che la famiglia ha ristrutturato, e riportato a nuova vita, consente di avere un distacco necessario dalle cose del mondo, e dall’esperienza vissuta a cena. Per il risveglio, una sontuosa colazione di impronta tradizionale ci riporta piano piano verso il mondo reale, con sapori finalmente conosciuti: dolce e cremoso si alternano sulla tavola candida, in una sala sempre minimale ma decisamente più piena di cose e di oggetti, di colori e di materiali.
È come una coccola dopo aver tanto pensato, e anche il servizio, qui, è più disinvolto e presente. Tornati alla realtà del mondo, c’è solo un altro passaggio, per capire il mondo dei Romito. Ed è quello che proprio non ti aspetti, ma che ti fa capire quanto questa famiglia che ha tentato la scalata all’alta gastronomia da outsider, ha saputo rendere per tutti le sperimentazioni fatte nella cucina “dei grandi”.
E l’ultimo passaggio si chiama ALT, ed è una casetta rettangolare sulla statale abruzzese. Neon colorati, atmosfera americaneggiante, menu sui tabelloni in alto sul muro, servizio smart e proposte popolari. Pollo fritto, bombolone – la famosa “bomba” alla crema, panini e hamburger. Tutto, però, studiato al millimetro per essere perfetto, e per traslare nel pop quello che si sperimenta nella cucina stellata. Anche qui ogni gesto e ogni ricetta sono provate e studiate nei dettagli, per mesi: ma lo scopo è completamente diverso. Se là, al Reale, si sperimenta per sorprendere e per far pensare, qui si studia per rendere tutto buono, e soprattutto accessibile. Perché, in fondo, l’alta cucina dovrebbe proprio servire a questo: a capire, a meditare, e a mettere a disposizione di tutti, industria compresa, quella sperimentazione portata alla massima potenza. Redistribuendo così, a tanti, la ricchezza di riflessioni e studi che abbiamo scoperto per pochi.
Questo articolo racconta l’esperienza fatta al ristorante Reale: leggi anche l’articolo gemello scritto da un altro punto di vista, per narrare la stessa realtà.