L’Europa è stata per anni il principale capro espiatorio del populismo italiano, ben al di là dei suoi limiti, emersi con particolare evidenza ai tempi della crisi greca, che per poco non divenne il default dell’intera zona euro: non a caso da allora la letteratura contro l’austerità, i difetti dell’architettura di Maastricht, lo strapotere di Berlino e la filosofia della Bundesbank si è fatta sterminata.
Quell’impostazione è stata però diametralmente rovesciata nel 2020, quando la Commissione ha deciso di promuovere un gigantesco sforzo comune per uscire dalla crisi causata dalla pandemia, consentendo ai paesi membri in maggiori difficoltà di rialzarsi e riprendere a crescere (prendere a crescere, nel nostro caso). Uno sforzo immenso, che ha mobilitato un’enorme quantità di risorse, destinate in larghissima parte proprio all’Italia – centonovanta miliardi, euro più euro meno – non per l’abilità oratoria dell’allora presidente del Consiglio, checché ne dica l’interessato, ma semplicemente perché eravamo quelli messi peggio e dunque più bisognosi di aiuto (il che, per carità, non era solo colpa dell’allora presidente del Consiglio, ma è non meno assurdo che sia divenuto per lui addirittura motivo di vanto).
Se adesso state pensando che l’ho presa molto alla larga, per venire alla polemica di questi giorni sui ritardi nell’applicazione del Pnrr, vi sbagliate: la questione è larghissima di per sé e come tale va considerata. L’errore peggiore sarebbe proprio restringerla a una polemica da quattro soldi tra il governo attuale e i governi precedenti, ridurla al solito rimpallo di responsabilità, condita magari dalla centesima replica della polemica sulle regole degli appalti tra chi dice che bisogna velocizzare, accusando gli altri di bloccare l’Italia, e chi dice che occorrono maggiori controlli, accusando i primi di spalancare le porte a mafia e corruzione. Per quanto ancora possiamo andare avanti così?
Dal 2020 a oggi si sono alternati alla guida dell’Italia tutti i partiti, con tutte le maggioranze, attraverso tutte le formule e tutte le combinazioni di governo possibili: abbiamo avuto primi ministri tecnici e politici, governi di coalizione, di larghe intese e di unità nazionale. Il fallimento del Pnrr sarebbe un fallimento collettivo, da cui nessuno potrebbe chiamarsi fuori.
Ben venga dunque il dibattito parlamentare chiesto dal Partito democratico, a condizione che non sia l’occasione per continuare questo gioco insensato, in cui peraltro resterebbero comunque insuperabili, sui due fronti, Matteo Salvini da un lato e Giuseppe Conte dall’altro: le due anime del peggiore governo della storia repubblicana, non a caso l’unico che sia andato veramente vicino a portarci fuori dall’euro.
Al di là delle chiacchiere e delle conversioni sempre reversibili buone per i creduloni, Salvini e Conte sono i veri campioni dell’antieuropeismo italiano. Il primo incalza costantemente il governo da posizioni populiste e anti-Ue, tanto che ancora tre giorni fa se la prendeva con l’Europa che «impone sacrifici» agli italiani (forse si riferiva al sacrificio di dover capire come spendere 190 miliardi, tra prestiti ultra-agevolati e vere e proprie donazioni); il secondo, invece, pure (dalla ratifica del Mes alla guerra in Ucraina).
Tutte le critiche a Giorgia Meloni e al suo governo per come sta gestendo il Piano nazionale di ripresa e resilienza sono dunque legittime e benvenute (tanto più se accompagnate da qualche autocritica). L’unica cosa che però la sinistra non può permettersi di fare è confondersi con i populisti, con il loro irresponsabile gioco allo sfascio, specialmente su un argomento tanto delicato, da cui dipende l’ultima possibilità di uscire dalla trentennale stagnazione italiana.
Dopo anni di proteste contro l’egoismo della Germania e dei cosiddetti paesi frugali, contro la miopia delle politiche di austerità e la rigidità dei parametri europei, non avremo seconde occasioni: se falliamo stavolta, proprio quando l’Europa si è finalmente convinta a seguire la strada opposta, non perderemo solo una montagna di soldi, ma anche ogni voce in capitolo, e il diritto di lamentarcene, almeno per i prossimi mille anni.