La scelta di risposte emotive come quelle che hanno portato all’elezione di tanti leader populisti ha già provocato qualche ripensamento. Si può sperare che con il ritorno a politiche più meditate cresca anche la capacità di analisi dei problemi e la necessità di elaborare una nuova visione del mondo. Il punto di partenza ancora una volta è proprio la tecnologia, che sta al centro del progetto europeo, perché è enorme la capacità di trasformare radicalmente il modo in cui apprendiamo, lavoriamo e interagiamo nella società, ma allo stesso tempo perché troppo visibile è la grande concentrazione di potere e di risorse economiche che si è accumulata nelle mani di pochissimi soggetti. E la politica si sta rendendo conto che questa concentrazione è rischiosa per la democrazia.
Il Congresso americano ha cominciato a occuparsi dei problemi di privacy e di abuso di posizione dominante delle concentrazioni tecnologiche, e con la riflessione su questi temi si apre un dibattito più ampio su potere e democrazia, monopoli e libertà. Negli Stati Uniti torna il dibattito che vide contrapposti Alexander Hamilton e Thomas Jefferson alle origini della Costituzione americana. L’idea di Hamilton, federalista, sostenitore di un forte Stato centrale e di una grande industria manifatturiera, contro l’idea di Jefferson, favorevole a dare più spazio alle autonomie locali, alla tutela dei piccoli agricoltori e a una rigida vigilanza sulle concentrazioni di potere economico e politico.
Il prevalere di Hamilton ha fatto grandi gli Stati Uniti, ma l’idea di Jefferson di un controllo democratico ha sempre giocato un ruolo importante nei momenti storici di svolta. Efficienza contro controllo democratico, grande dimensione contro mercato, sono i temi fondamentali di ogni dibattito pubblico, comparsi nella storia degli Stati Uniti a fasi alterne: dalla Grande depressione, con le politiche di Roosevelt a difesa dei piccoli e contro lo strapotere dei grandi, al dibattito odierno sulle concentrazioni nel settore tecnologico
In Europa l’aspirazione hamiltoniana, compreso il consolidamento a livello federale dei debiti dei singoli Stati, è entrata prepotentemente nel dibattito recente, ma in qualche modo l’Europa è stata molto jeffersoniana, a protezione della concorrenza del mercato dei diritti dei cittadini con uno Stato centrale debole. La tecnologia introduce una dimensione diversa in questo dibattito. Il tema del monopolio travalica i confini degli Stati e diventa planetario. C’è molto poco comunque che l’Europa può fare senza che prima si muovano gli Stati Uniti. Spetta a questi ultimi fare la prima mossa. La tecnologia è uno strumento straordinario, ma la direzione nella quale l’assenza di qualsiasi regolazione ha spinto le relazioni sociali è quella sbagliata.
Intanto la Cina di Xi Jinping affronta il problema a modo suo: mettendo la museruola ai grandi capitalisti dell’economia digitale (quella dei servizi, non quella delle infrastrutture di rete considerate strategiche dal governo e, quindi, lasciate libere di crescere senza vincoli), anche a costo di rallentare la corsa al primato tecnologico.
La promessa di una società più aperta, informata e consapevole, e dunque piu democratica, realizzata grazie alla tecnologia è stata tradita. La scelta di non regolamentarne per lungo tempo lo sviluppo, garantendo l’immunità per gli abusi, ha prodotto una concentrazione di potere e di ricchezza che ha messo in crisi il delicato sistema di controlli ed equilibri che caratterizza la democrazia e ha aperto la strada a forme subdole di supervisione e condizionamento sociale.
La trasformazione operata dalla tecnologia investe in profondità il tessuto sociale con conseguenze ancora largamente inesplorate. Si creano nuove dinamiche magari alimentate da straordinarie innovazioni che però fanno saltare equilibri, creano nuovi disagi o nuovi problemi geostrategici: l’automazione e l’intelligenza artificiale trasformano il mondo del lavoro offrendo grandi vantaggi, ma anche diffondendo ansia e incertezza.
(…) Non si tratta di contrastare tecnologie comunque inarrestabili e sempre capaci di far progredire l’umanità, se ben indirizzate, ma di riconoscere che non aver imposto vincoli alle imprese digitali – a differenza di quanto fatto in passato in tutti gli altri settori, dall’auto al nucleare, dal trasporto aereo al cibo, al fumo e ai farmaci – non solo ha favorito enormi aggregazioni di potere oggi gestite da un pugno di tecno-oligarchi, ma ha minato i sistemi politici democratici.
Una realtà che dovrebbe essere evidente agli occhi di tutti: una democrazia funziona se i cittadini con idee ed esigenze diverse riescono, partendo da posizioni contrapposte, ad arrivare a soluzioni di compromesso con negoziati alla cui base c’è la condivisione di una piattaforma comune di valori nei quali tutti si riconoscono. Questo patrimonio di valori comuni svanisce se le tecnologie digitali favoriscono la creazione di universi totalmente separati che tribalizzano la società, generando incomunicabilità tra i gruppi, e se i giganti Big tech che le gestiscono favoriscono, per massimizzare i profitti, i messaggi più estremi e brutali.
Problemi numerosi e complessi, ma è urgente affrontarli ora: perché le nostre democrazie scricchiolano, ma anche perché i giganti tecnologici – visti con occhio più critico dal popolo dei loro utenti, finiti nel mirino della politica che vorrebbe regolamentarli e indeboliti da una fase di ridotta redditività e crescita che nel 2022 ha provocato un brusco calo dei valori in Borsa – per la prima volta sembrano aver perso la loro invulnerabilità. Come ha detto al “Guardian” Justin Rosenstein, l’ingegnere, ex di Google e Facebook, che ha contribuito a creare il bottone dei like, ora pentito, “dobbiamo parlarne adesso perché potremmo essere l’ultima generazione in grado di ricordare com’era la vita prima” della rivoluzione digitale.