Incatenati al massimalismoLa sinistra alle prese con il suo passato non vede il futuro

Chi vuole restaurare i simboli degli anni 70 del secolo scorso, come l’articolo 18, non ha idea di come funzioni il mondo di oggi. Bisogna adeguare il pensiero riformista alle nuove sfide, pensando a un’eguaglianza che possa coesistere con la valorizzazione delle diversità individuali

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Se la sinistra politica si divide oggi in Italia in almeno quattro frazioni, non ci si può certo stupire se la cultura corrispondente si spacca a sua volta in tendenze diverse. Ne è prova un recente confronto su Repubblica tra Aldo Schiavone e Carlo Galli (stessa appartenenza culturale, due soluzioni opposte). Lo conferma lo strepitoso esito elettorale delle Primarie del Partito democratico, con due risultati contraddittori, ma paradossalmente entrambi plausibili.

A meno di accontentarsi del nuovo in quanto nuovo (nuova segretaria, nuove genere al comando, nuovo linguaggio contro i cacicchi, nuovi applausi dei cacicchi a sé stessi), un chiarimento sarebbe necessario. La sconfitta, e l’occasione di elezioni ancora lontane, offrono la possibilità di rigenerarsi e provare a battere una destra oggi appagata dal suo transitorio successo e quindi disattenta a riflessioni strategiche di cui pure, a sua volta, avrebbe urgente bisogno.

In attesa di tutto questo, il dibattito tra Carlo Galli e Aldo Schiavone segnala una distanza pressoché totale sia nell’analisi che nelle proposte.

Al di là di un rispettoso galateo formale nelle argomentazioni, due intellettuali di area seguono percorsi culturali segnati da discontinuità (Schiavone) e conservazione (Galli) ancor più inconciliabili, alla luce della contestuale lettura di un piccolo libro di grande qualità (“Sinistra! Un manifesto”, editore Feltrinelli) con cui Schiavone supera violentemente tutte le categorie continuiste del pensiero di sinistra.

Aldo Schiavone esorta addirittura la sinistra ad accettare la realtà e cioè la vittoria del capitalismo e la sconfitta finale del socialismo, mentre Galli fa slalom tra riformismo e socialismo, costringendo il titolista del suo saggio a una affermazione che sembra un po’ surreale: “Il riformismo senza sinistra si chiama neo liberismo”. Come a dire che l’accettabilità del neoliberismo (cosa sia davvero mai nessuno lo spiega, c’è solo sempre un’allusione demoniaca) dipende da chi lo brandisce. Spiegandolo poi meglio, e premesso che la parola socialdemocrazia continua a essere «impronunciabile», il riformismo di cui si parla va inteso solo come la «fase transitoria» di un percorso il cui «obiettivo resta il socialismo». Sarebbe sempre meglio la rivoluzione, ma bisogna prendere atto, (dolorosamente sembra necessario aggiungere), che quest’ultima deve essere accantonata, ma solo «perché impraticabile».

Muovendo da queste premesse, è dunque comprensibile, ma forse un po’ antistorico, che Galli citi il riformismo laburista di Tony Blair e la socialdemocrazia di Gerhard Schroeder come prodromi della successiva deriva neoliberista (ancora questo pensiero fisso).

Certo, si concede che esista un filone di riformismo democratico borghese, ma lo si distingue bene da quello socialista, quasi ne fosse una imperfetta imitazione. I suoi meriti sono citati – Franklin Delano Roosevelt, stato sociale, società del benessere ecc. -, ma il filone principale resta l’altro, quello del riformismo «in mancanza di meglio» di cui parlava anche l’ex responsabile economico del PD, Emanuele Felice: un male minore, sempre perché la rivoluzione è «impraticabile».

Nessun dubbio sulla possibile contaminazione creatrice che potrebbe scaturire dall’esame degli insuccessi del socialismo, non solo quello reale, e da quello dei successi del capitalismo in termini di superamento della lotta di classe e di crescita sociale complessiva.

Aldo Schiavone è invece su questo punto inesorabile: chiede di abbandonare «come inservibile ogni idea di socialismo» (farlo sarebbe addirittura un «ultimo gesto autenticamente marxista; un’applicazione rigorosa e conclusiva di quel pensiero geniale») esortando a capire che «In termini strettamente economici e sociali, il capitale ha vinto la sua battaglia…e bisogna prendere atto con realismo di questo dato e saper chiamare le cose con il loro nome, senza addolcimenti». Il realismo consentirebbe tra l’altro di non inseguire battaglie di retroguardia antiliberiste, concentrandosi magari meglio sull’insostituibile ruolo che la sinistra dovrebbe avere nel combattere le contraddizioni del capitalismo.

Uscendo però dallo schema che Carlo Galli ancora ripropone: quello di riforme pensate per adattare l’economia ai cittadini e non i cittadini all’economia (come se gli effetti negativi, talora catastrofici, del dirigismo nelle sue varie forme non avessero insegnato niente).

Il merito di Aldo Schiavone è di evitare le categorie astratte e prendere atto concreto della realtà, anche se intellettualmente scomoda. E realtà significa capire le conseguenze della vera rivoluzione del nostro tempo: quella della tecnica e del capitale, con implicazioni dirette sul lavoro. La sinistra non può non sapere che questi tre fattori hanno cambiato totalmente il quadro di riferimento. Non c’è più il conflitto tra operai e capitale, non ci sono più gli operai.

E va anche apprezzato il fatto che Schiavone si pone in una prospettiva universalistica di cittadinanza dinamicamente alternativo alle “nazioni” meloniane.

Quella da risolvere, sulle rovine di un’epoca chiusa, è se mai la diseguaglianza, che va affrontata a sua volta non con le vecchie categorie “socialiste”. Magari Galli chiamerà liberiste queste priorità ma ci sembra innegabile che si debba finalmente pensare ad «un’eguaglianza che possa coesistere con la valorizzazione delle diversità individuali». Queste ultime devono essere le protagoniste di un diverso rapporto con beni comuni essenziali: salute, ambiente, informazione, democrazia.

Chi pensa pertanto a programmi di governo basati sulla restaurazione di simboli degli anni 70 del secolo scorso, come l’articolo 18, o fa del piccolo cabotaggio sul Jobs Act, forse non ha nozione reale dell’economia, della finanza, del lavoro (soprattutto) nella nostra epoca.

E ritarda, rallenta ciò di cui abbiamo più bisogno, una nuova disponibilità mentale non al revisionismo ma al riformismo delle scelte difficili.

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