Il 2024 è l’anno delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, ma è anche l’anno delle elezioni presidenziali di Taiwan. E l’importanza delle seconde, anche a livello internazionale, non è minore rispetto alle prime. A seconda del vincitore, le dinamiche della relazione che caratterizza il triangolo scomposto che unisce Taipei, Pechino e Washington. Gli aventi diritto di voto tra i circa 24 milioni di abitanti si recherà alle urne sabato 13 gennaio 2024, ma la lunga rincorsa è già cominciata, così come le rispettive manovre dei tre attori di una vicenda che può decidere molto dei futuri equilibri globali: a livello geopolitico ma anche a livello commerciale e tecnologico.
Proprio gli eventi di questi giorni possono giocare un ruolo potenzialmente decisivo. Oggi la presidente taiwanese Tsai Ing-wen parte per un viaggio in America centrale: sulla strada dell’andata e del ritorno effettuerà due scali negli Stati Uniti. Giovedì 30 marzo si fermerà a New York, mentre mercoledì 5 aprile sarà in California, dove dovrebbe incontrare lo Speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy. Prima di lei, però, è partito anche Ma Ying-jeou. L’ex presidente taiwanese è andato nella Repubblica Popolare Cinese, dove resterà fino al 7 aprile. Un viaggio storico, visto che si tratta del primo leader o ex leader di Taipei a recarsi in Cina continentale dal 1949.
In altre parole, da quando il Kuomintang (KMT, il partito nazionalista cinese fondato da Sun Yat-sen) perse la guerra civile contro Mao Zedong e fu costretto a ripiegare su Taiwan (liberata dalla colonizzazione giapponese nel 1945) e su vari altri arcipelaghi tra cui alcuni, come Kinmen e Matsu, a pochissimi chilometri di distanza dalle coste del Fujian. È quell’insieme di territori ancora oggi amministrato dalla Repubblica di Cina, il nome con cui Taipei è indipendente de facto.
Ma e Tsai hanno posizioni politiche diverse, così come rapporti con Pechino antitetici. Il primo è stato protagonista di un’epoca di grande disgelo tra le due sponde dello Stretto, con la firma di diversi accordi commerciali che portarono durante il suo secondo mandato tanti taiwanesi (soprattutto i più giovani) a protestare per il timore di un’eccessiva dipendenza da Pechino. Anche durante l’avvio del suo viaggio in Cina continentale, ha ribadito l’aderenza al cosiddetto «consenso del 1992», un accordo tra KMT e Partito comunista che riconosce l’esistenza di una unica Cina ma «con diverse interpretazioni».
In sostanza, i due ex rivali della guerra civile riconobbero di far parte tutti di una stessa entità ma senza mettersi d’accordo su quale fosse la sua espressione politica e istituzionale legittima. Un’ambiguità voluta per mantenere in piedi lo status quo, ma che Pechino è sempre stata convinta giocasse a suo favore. Il ragionamento è il seguente: se a Taipei riconoscono che esiste una sola Cina e nel mondo quasi tutti i paesi (tranne 13) mi riconoscono come governo legittimo della Cina, prima o poi la “riunificazione” (o “unificazione”, come la chiamano a Taiwan) sarà una conseguenza naturale.
Questo principio non è però riconosciuto dal Partito progressista democratico (DPP) di Tsai. La presidente è espressione della parte più moderata del partito, quella che non persegue l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan (che segnerebbe una cesura definitiva e inaccettabile per Pechino) ma che sostiene la cosiddetta “teoria dei due stati”. In sostanza, Tsai non riconosce che le due sponde dello Stretto facciano parte di una “unica Cina” ma si dice aperta al dialogo qualora Pechino non ponga precondizioni e riconosca l’esistenza di due entità non interdipendenti l’una all’altra.
Da qui l’assenza totale di dialogo politico tra i due governi dal 2016, da quando cioè Tsai è stata eletta per la prima volta. In questi sei anni, l’ecosistema sullo Stretto è molto mutato. Da una parte, Pechino ha operato un’escalation coercitiva su diversi piani. A livello diplomatico, ha portato 9 paesi a rompere i rapporti diplomatici ufficiali con Taipei e a stabilirne con la Repubblica Popolare. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’Honduras, che proprio alla vigilia della partenza di Tsai per l’America centrale ha annunciato l’avvio delle relazioni con Pechino.
A livello globale, ha poi alzato il pressing in ogni sede, comprese le organizzazioni internazionali, per escludere o non includere Taiwan. Infine, dal 2019 ha alzato anche il livello delle operazioni militari sullo Stretto. Prima avviando manovre all’interno dello spazio di identificazione di difesa aerea di Taipei (che in parte però si sovrappone al territorio della Repubblica Popolare), poi anche oltre la cosiddetta “linea mediana”, un confine non riconosciuto ma ampiamente rispettato sino alla scorsa estate che creava una sorta di “zona cuscinetto” tra le due sponde. Tutte azioni che hanno alzato, almeno ufficialmente, il timore di Taipei e di Washington che Pechino possa decidere di alterare lo status quo attraverso un’azione militare.
Dall’altra parte, specularmente, Pechino motiva le sue azioni per quella che ritiene un’escalation diplomatica degli Stati Uniti. Non è iniziato tutto con Nancy Pelosi. Senza contare la costante vendita di armi (non una novità), Xi Jinping ha osservato con sgomento la telefonata fra Tsai e Donald Trump dopo l’elezione del tycoon alla Casa Bianca nel 2016. Prima di lasciare posto ad Antony Blinken, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo ha poi eliminato tutte le restrizioni autoimposte negli scambi tra funzionari statunitensi e quelli taiwanesi. Mossa che ha aperto a un aumento delle delegazioni americane a Taiwan. Fino ad arrivare a quella di Pelosi, che lo scorso agosto è stata la prima speaker del Congresso a recarsi a Taiwan dal 1997. Una visita a cui Pechino ha reagito con imponenti esercitazioni militari che per oltre una settimana hanno testato diversi scenari, dallo sbarco anfibio al lancio di missili fino a un blocco navale dell’isola principale di Taiwan.
Un tempo gli Stati Uniti erano ritenuti una sorta di arbitro tra le due sponde dello Stretto: da una parte si impegnavano a sostenere le difese di Taipei per scongiurare un’azione militare di Pechino utile a ribaltare unilateralmente lo status quo. Ma dall’altra si impegnavano a evitare mosse di Taiwan in direzione di una dichiarazione unilaterale di indipendenza (dalla Repubblica di Cina, cioè sostanzialmente da sé stessa). Ora invece, è Taiwan che rischia di finire in mezzo alla disputa delle due potenze.
È in questo scenario che si inserisce la doppia visita di questi giorni. Lo scalo di un leader taiwanese negli Stati Uniti non è una novità. Quello di Lee Teng-hui nel 1995, a pochi mesi dalle prime presidenziali libere taiwanesi, portò alla terza crisi sullo Stretto. La stessa Tsai è passata da Denver nel 2019. Stavolta, incontrerà però la terza carica americana, McCarthy. E a Pechino non piacciono le novità, anche perché la prima preoccupazione del Partito comunista cinese è solitamente quella di giustificare sul fronte interno eventi sui quali almeno per il momento non ha controllo. Xi non vuole che l’agenda sia dettata da altre voci, nemmeno quelle ultranazionaliste che ad agosto scorso chiedevano persino l’abbattimento del volo di Pelosi.
Il viaggio di Ma consente al leader cinese di poter rivendicare un’altra novità: la prima visita di un leader o ex leader taiwanese. Un eventuale incontro con Wang Huning, terzo nella gerarchia del PCC e presidente della Conferenza politica consultiva del popolo, garantirebbe addirittura una risposta speculare all’incontro Tsai-McCarthy. Anche se Ma non dovesse incontrare un funzionario così di alto rango (e sarebbe un inedito anche perché il suo itinerario non comprende la capitale), il suo viaggio garantisce la possibilità a Xi di mostrare qualche ipotetico passo avanti sulla soluzione politica della questione Taiwan. Certificando la totale legittimazione del KMT come interlocutore in vista delle prossime elezioni.
Non solo. Xi non vuole ripetere lo stesso errore del 2019. Oggi come allora, il KMT è reduce da una netta vittoria alle elezioni locali che si sono svolte a fine novembre. Il discorso di inizio anno di 4 anni fa è stato uno dei più duri di sempre di Xi sul fronte Taiwan. Oltre ai contenuti, mancata rinuncia all’utilizzo della forza e offerta del modello “un paese, due sistemi”, anche nelle scelte lessicali. Quel discorso, unito a quanto accaduto nei mesi successivi a Hong Kong, spostò del tutto le presidenziali taiwanesi del gennaio 2020 sul tema identitario e dei rapporti con Pechino. Argomenti sui quali il DPP ha una posizione ben più chiara e appetibile per la maggioranza dei taiwanesi, soprattutto i più giovani che ormai vivono una cesura non solo politica ma anche culturale e identitaria con la Cina continentale. Nei sondaggi condotti annualmente dalla National Chengchi University di Taipei, più del 60 per cento degli intervistati si definisce «solo taiwanese». Nel 1993 era il 17,6 per cento. Il 32,9 per cento si definisce invece «sia taiwanese, sia cinese» (30 anni fa era il 46,4 per cento). Infine, il 2,7 per cento si descrive come «solo cinese» contro il 25,5 per cento delle prime rilevazioni.
Il Partito comunista cinese sa che se alza i toni prima delle urne, finirà per aiutare di nuovo il DPP. Per questo sta ora tentando di mantenere un basso profilo, anche per non entrare in conflitto con l’immagine di grande stabilizzatore che Xi sta provando a trasmettere sul palcoscenico globale. In queste settimane, il presidente cinese riceve diversi leader stranieri, a partire dagli europei Pedro Sanchez, Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen. Una riedizione delle manovre dello scorso agosto confliggerebbe con la retorica che presenta la Cina come garante di stabilità.
Pechino spera di arrivare al prossimo gennaio convincendo i taiwanesi che solo il KMT può garantire stabilità sullo Stretto, ricordando nel frattempo gli ipotetici vantaggi materiali della distensione. Nelle scorse settimane, sono stati rimossi i divieti alle importazioni di diversi prodotti alimentari taiwanesi, nonostante il governo del DPP abbia annunciato nuovi round negoziali per un accordo commerciale con gli Usa. Eventualità che in passato portava all’introduzione di nuovi blocchi.
Il KMT sente di avere la possibilità di convincere gli indecisi, giocando sul fatto che il candidato del DPP sarà una figura più radicale di Tsai. L’attuale vicepresidente William Lai, candidato in pectore del partito di maggioranza, si è in passato espresso a favore del perseguimento dell’indipendenza formale. Salvo poi smussare le sue posizioni dopo l’accordo con Tsai che ha scongiurato il rischio di scissione del DPP nel 2019. Ma il KMT proverà a presentarlo come un elemento di discontinuità e rischio, nonostante faccia parte dello stesso partito di Tsai. Non è detto che la strategia riesca.
Le ambiguità della politica intrastretto del principale partito d’opposizione sono ancora diverse. E all’interno del KMT si sta consumando una dura battaglia per l’individuazione del candidato. Il leader Eric Chu spera ancora di provarci di nuovo, dopo la sconfitta nel 2016, e teme che il viaggio di Ma serva anche al suo ex capo per presentare al PCC il suo rivale Hou Yu-ih, popolare ex poliziotto e sindaco di Nuova Taipei.
Tra tanti dubbi e incognite, ci sono due cose piuttosto certa. La prima: comunque vadano le due visite di Tsai e Ma e comunque vadano le elezioni, dopo il voto Xi aumenterà il pressing. Militare e strategico in caso di vittoria del DPP. Politico in caso di vittoria del KMT. La seconda: più deteriorano i rapporti tra Pechino e Washington e più si alzano i rischi per Taiwan.