“Magna, bambina” dice Ernesto Ballarin dopo aver servito, e tagliato, una succulenta porzione del suo filetto alla Voronoff – una versione del celebre piatto afrodisiaco nato negli anni ’20 come elisir di giovinezza e virilità – che lo chef, amante del bianco, dei Martini e soprattutto della cucina, propone nel suo ristorante Vini Da Arturo, esattamente da cinquant’anni. Arredi e pareti di legno, una cucina minuscola e un’atmosfera frizzante: nulla è cambiato dal sabato in cui Ballarin decise testardamente di aprire questo piccolo ristorante controcorrente, che non serve pesce: «Aprire un locale di carne a Venezia è stata una scommessa. Ci ho provato e mi è andata bene».
È andata molto bene, tanto che ai sette tavoli di Vini Da Arturo siedono regolarmente, oltre ai local, anche numerose celebrità, i cui volti appaiono appesi alle pareti in stampe autografate – Cindy Crawford, Tobey Maguire, Barbra Streisand – e sul centinaio di fotografie archiviate nei due corposi album che talvolta circolano tra le mani degli ospiti, dove Ernesto e Hani Benjamin sorridono insieme a Michael Moore, Tom Ford, Robert Downey Junior, Julianne Moore, per citare solo le prime pagine.
L’arrivo di Hani – il partner che dal ’99 lo affianca nella gestione e in sala, a cui Ballarin ha affidato il futuro della sua attività – ha dato il via a una tradizione: ogni inverno per dodici anni, Da Arturo ha chiuso i battenti per trasferire il proprio team a Los Angeles, nella cucina privata di Joel Silver – «il produttore di Matrix» – un affezionato cliente che ha ottenuto il privilegio dopo «vent’anni passati a dirgli di no».
«Questo posto è scomodo e brutto, ma la gente ci mangia lo stesso. Qua sono tutti famosi. Ma poi, tra tutti, il più famoso sono io» dice commentando le sue panche di legno, che all’inizio non avevano nemmeno i cuscini. Ma è la sua cucina eccellente ad attirare habitué da tutto il mondo che, una volta a Venezia, vanno a mangiare Da Arturo e non si stancano mai del menu: «Mangiano sempre le stesse cose», commenta Ballarin.
Neanche il menu, infatti, è mai cambiato, a parte qualche eccezione: «Il 3 marzo sono cinquant’anni che è aperto il ristorante. Per l’inaugurazione offrimmo ombre alla gente del quartiere». Dal vecchio bancone, ora scomparso, uscivano piatti semplici, come il cotechino o la pasta e fagioli, e poi tramezzini e tartine: «All’epoca la gente mangiava. Tu sai che tutte le mie insalate, i primi due anni, dovevo buttarle via. La gente non voleva cominciare con le insalate. Era il ’73, la gente voleva cominciare con la pasta, oppure con gli affettati».
Le “insalate” sono gli antipasti caldi e freddi a base di verdure con cui Ballarin accoglie quelli che scelgono di affidarsi alla sua cucina, degli essentials molto apprezzati oggi che però, all’inizio, nessuno ordinava: «Così ho iniziato a offrirle per farle assaggiare. E allora la gente tornava».
Dal menu sono stati eliminati «piatti che facevano tutti», per concentrarsi sulle specialità: «Le pappardelle al radicchio – ma no se padeae e fatte, se cotte per tre ore – e i filetti, che sono sempre tre, Voronoff, Stroganoff e Pepe Verde».
Da qualche anno, spiega Ernesto, la clientela è cambiata, soprattutto dopo che il celebre show Netflix “Date da mangiare a Phil” ha fatto conoscere la sua enorme Braciola all’Arturo a un pubblico sempre più ampio e internazionale. Lo chef racconta di aver impiegato più di un anno a sviluppare questa ricetta, provando diversi tagli, panature e aceti. Il risultato è la carne più acetosa, e gustosa, che potreste mai mangiare. «È stato molto difficile trovare l’equilibrio giusto di sapore. Non piace a tutti, però, ad esempio, io ho due clienti veneziani che non amano l’aceto, eppure la prendono sempre. Non lo so, è tutto molto strano. È buona? Sa d’aceto?» chiede dopo averne servita una porzione anche più grande del solito.
Anche se ci sono tanti ordini, in cucina si fa una braciola alla volta, a partire da tagli rigorosamente dai 600 grammi in su, con l’osso. La carne viene aperta “a farfalla” e battuta finché non diventa sottile, e, dopo una doppia panatura, fritta. Si butta via l’olio e si sfuma con molto aceto. A seconda di quando la si mangia, spiega lo chef – a cui non piace essere chiamato così – la braciola cambia sapore. «A me piace bollente, quando ti arriva e l’odore dell’aceto quasi ti soffoca». Man mano che si raffredda, il sapore evolve e si attenua. «È buonissima anche il giorno dopo, a temperatura ambiente. A ognuno piace a suo modo».
In occasione del cinquantesimo anniversario è uscita una pubblicazione, “Da Arturo”, edita da Grafiche Veneziane e prodotta da Laguna~B (il brand muranese fondato da Marie Brandolini D’Adda, amica dello chef), che documenta il making of della leggendaria braciola con tanto di ricetta, che Ballarin condivide serenamente, senza timore di svelare i suoi segreti culinari. «Tanto possiamo anche metterci in cinque con gli stessi ingredienti a fare lo stesso piatto, ma non verrà mai uguale. La cucina che facciamo noi non puoi farla altrove».
È convinto che oggi un ristorante come il suo non potrebbe nascere: «Chi cucina non lo fa più come una volta. Fanno tutto veloce, col fuoco alto. Invece bisogna usare il fuoco molto basso, per ore. Tutti i piatti di questa cucina sono cucinati lentamente. In veneziano si dice “pippare”, una cottura lenta, da gustare, come con la pipa. Se io non avessi passione, credi che sarei ancora qua? Sono qua perché mi piace, e perché ho un rapporto stupendo con la mia clientela, che posso anche mandarla a quel paese che non si offende. Però se vanno in un altro locale, non lo accettano. Solo qui lo accettano, perché c’è un rapporto diverso. Di rispetto». A 82 anni, Ernesto Ballarin passa ancora tutto il suo tempo al ristorante, ed è pronto a vivere «almeno altri 80 anni».
A chi dovesse venire la prima volta, consiglierebbero – oltre a «tutti i piatti» – un menu di specialità, con melanzane in saor, pappardelle al radicchio, e poi gli straccetti, serviti con tantissima rucola fresca. «È un piatto che adoro perché è semplice», spiega Hani.
I piatti semplici ma incredibilmente raffinati – dal tempo e dalla passione – così come le tovaglie bianche, le posate d’argento, perfette, e i coloratissimi bicchieri Berlingot, sono le cifre dello stile di Da Arturo: mostrano il genio che si nasconde nelle cose essenziali e lascia indietro il superfluo. Una definizione del lusso.