L’idea di nazione, dopo un lungo oblio, è dunque tornata centrale nella politica italiana grazie alla riproposizione che ne hanno fatto i partiti d’ispirazione populista e sovranista?
Da un lato è certamente così. In realtà, nell’uso enfatico e rivendicativo che questi ultimi fanno di termini quali «patria», «interesse nazionale», «lealtà nazionale», «appartenenza», «comunità nazionale» ecc. non mancano, come abbiamo visto, zone d’ombra e contraddizioni; sembrano dunque riproporsi le ambiguità che la destra politico-culturale italiana ha spesso manifestato nel corso della sua storia.
La prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo. Rispetto al nazionalismo storico al quale viene spesso (e impropriamente) paragonato, che era espansivo e dinamico, che puntava a proiettare fuori dai suoi confini storici la potenza economico-politica del proprio paese, il sovranismo è invece fortemente «protezionista».
Ma più sul piano politico-culturale o della mentalità che in senso tradizionalmente economico-produttivo. Dietro le sue critiche al rigorismo finanziario europeo o alle politiche di libero commercio mondiale, giudicate penalizzanti per l’industria nazionale, esso sembra tradurre soprattutto le paure inconsce e i risentimenti che attraversano ormai da anni la società italiana. […]
Il sovranismo, in altre parole, è l’espressione di un umore collettivo, di un sentimento di massa segnati sempre più da una sensazione di decadenza, debolezza e incertezza: è la traduzione, sul piano elettorale e della comunicazione politica, dell’angoscia e dello smarrimento provocati dal mondo globalizzato nella gran parte delle società europee (dove non a caso negli ultimi anni sono nati e si sono affermati numerosi movimenti nazional-populisti simili alla Lega o a Fratelli d’Italia).
Non per niente la propaganda di questi ultimi – rivelatasi elettoralmente assai efficace – ha giocato molto sul tema delle «frontiere chiuse» e dei confini nazionali da tutelare contro la minaccia degli immigrati e degli stranieri. Si tratta di una retorica difensiva, contro qualunque pericolo proveniente dall’esterno, che è stata applicata dai nazional-populisti, in una logica neo-autarchica, anche alla cucina e ai consumi alimentari, all’energia e al commercio: da qui gli inviti a consumare solo cibi e prodotti agricoli italiani, a preferire sempre e comunque il made in Italy in ogni tipo di produzione.
Un appello che, in un mondo segnato irreversibilmente dalla libera circolazione delle merci e da catene di produzione industriale altamente integrate su base globale, non ha ovviamente alcun senso pratico se non quello di alimentare la sensazione di accerchiamento e l’allarmismo delle fasce sociali più disagiate. Il sovranismo non spinge il proprio paese alla competizione, alla crescita o all’innovazione; suggerisce invece un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi.
Ma c’è un altro aspetto che dimostra quanto rischi di essere ideologicamente ambigua e puramente tattico-strumentale, dunque priva di respiro progettuale e politico, anche questa versione contemporanea del patriottismo.
Essa riguarda gli orientamenti di politica estera, la collocazione internazionale del paese e la difesa degli interessi vitali della nazione: un aspetto che nella prospettiva del nazionalismo storico è sempre stato considerato imprescindibile e irrinunciabile e che si è sempre tradotto, pur nel variare dei regimi e delle costellazioni storico-diplomatiche, in un’azione strategicamente finalizzata ad accrescere l’influenza dell’Italia nel bacino mediterraneo, intesa come punta avanzata dell’Europa verso il Nord Africa e il Medioriente.
E ciò sempre nel quadro dei vincoli di alleanza che la legano, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, all’Europa, agli Stati Uniti e in generale al blocco occidentale. Nel caso del populismo-sovranismo italiano – se si guarda in particolare all’esperienza del governo di coalizione tra Lega e M5S (giugno 2018-agosto 2019) – una propaganda anti-europeista molto accesa si è sommata a un’ambigua vicinanza, ideologica e geopolitica, a Stati e potenze che invece non sono mai stati alleati storici dell’Italia.
In altre parole, con l’idea di contrastare a ogni costo il disegno unificatore dell’Unione europea, considerato lesivo degli interessi italiani e frutto di un disegno globalista finalizzato ad annichilire i particolarismi nazionali attraverso le maglie della moneta unica e di una legislazione comunitaria centralizzata, si è finito per aderire o per simpatizzare, in modo del tutto acritico e ideologico, con il nazionalismo neo-imperiale di Putin, con l’espansionismo commerciale cinese, con l’anti-occidentalismo bolivarista o con il neo-autoritarismo democratico propugnato da Ungheria o Polonia.
Ciò ha comportato non solo un allentamento dei vincoli tra l’Italia e i suoi storici alleati europei, ma anche una pericolosa torsione rispetto alla sua tradizionale collocazione all’interno del sistema politico-militare euro-atlantico. Ne sono derivate, a più riprese, incomprensioni diplomatiche con gli Stati Uniti e un crescente attrito con Bruxelles, che hanno finito per gettare più di un’ombra sulla lealtà nazionale del fronte populista e sulla sua capacità-volontà di difendere realmente gli interessi strategici dell’Italia.
Tra l’altro, la vicinanza ideologica agli altri sovranismi europei (tra analisti e studiosi si è parlato, specie dopo l’elezione di Trump negli Stati Uniti, della nascita di una sorta di «Internazionale nazional-populista») non si è mai tradotta in una forma di solidarietà o di collaborazione politica: sulla questione dell’immigrazione, ad esempio, l’Italia non ha mai trovato il sostegno degli altri paesi europei sulla carta «amici» (Austria, Polonia, Ungheria).
In altre parole, nella pratica politica il sovranismo si è spesso rivelato un danno per l’Italia dal punto di vista politico e dell’immagine. Si è insomma risolto in una rivendicazione puramente verbale di sovranità e autonomia d’azione politica, come tale incapace di salvaguardare concretamente il tanto sbandierato, nei comizi e nei discorsi, «interesse nazionale».
Una rivendicazione al dunque fallimentare e di breve durata, come dimostra il brusco riallineamento geopolitico in senso euro-atlantista cui sono stati costretti sia la Lega salviniana sia il partito di Giorgia Meloni dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina.