Nel 2080 ci saranno due miliardi e mezzo di profili social di persone decedute. Un cimitero digitale pieno di post, foto e commenti più o meno opportuni. E solo in pochi hanno già deciso come disfarsene quando non saranno più vivi offline.
Secondo un articolo pubblicato dalla Bbc, già nel 2012 Facebook aveva raggiunto i trenta milioni di profili i cui proprietari erano deceduti. Alcuni dati stimano che ogni giorno muoiano circa ottomila utenti, contribuendo alla creazione di un grande cimitero social.
Morire fa parte del naturale corso della vita, che negli ultimi decenni si è fatta anche digitale. Ma se da una parte l’esistenza online è diventata parte integrante della quotidianità, dall’altra, la morte rimane ancora qualcosa di oscuro e sconveniente: un argomento di cui non si vuole parlare e con cui non si vuole avere a che fare, nemmeno in rete.
Con la morte del corpo le interazioni cessano di esistere, ma nel mondo digitalizzato questo non è del tutto vero: i nostri account social ci sopravvivono e continuano a interagire con quelli degli altri utenti anche dopo la nostra dipartita.
Al fine vita il destino che ci accomuna sembra quello di diventare degli «spettri digitali», come spiega il ricercatore dell’Università di Trento Davide Sisto nel suo libro “La morte si fa social: Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale” (Bollati Boringhieri editore). «Saremo permanentemente a disposizione dei posteri e quindi capaci accidentalmente di vivere per sempre, senza il nostro previo consenso, quali ingombranti testimoni del passaggio della morte e della contemporanea impossibilità di scomparire e di dimenticare», scrive Sisto.
Statici, ma presenti, i profili di chi non c’è più occupano uno spazio ingombrante, di cui non sappiamo ancora bene interpretare né il valore, né il significato. Cosa dicono di noi le lapidi digitali, ossia quegli account i cui contenuti sono ancora fruibili dal pubblico, che attraverso un archivio di foto, video e audio tengono in vita il ricordo di chi ci ha lasciato?
La ritualità funebre, in questo senso, sembra essersi spostata anche nell’universo digitale: succede, talvolta che alcuni utenti lascino dei messaggi di cordoglio, di vicinanza e di affetto sui profili delle persone che non ci sono più, come se stessero portando dei fiori al cimitero.
Questo accade, per esempio, con le pagine commemorative di Facebook, che accolgono ricordi di esperienze condivise e messaggi pieni di commozione, diventando teneri diari collaborativi attorno a cui le persone si stringono per celebrare il ricordo di una vita e condividere il peso di un’assenza.
«Oggi sono tre anni da quell’ultimo messaggio che mi scrivesti – commenta un utente sulla bacheca di un amico morto in un tragico incidente stradale -. Quel giorno eri veramente felice e io ti voglio ricordare così, ovunque tu sia». «Oggi il mio pensiero è rivolto a te, che sei sempre vivo nel mio cuore… buon compleanno», scrive un altro, mesi dopo. I social hanno creato un nuovo spazio per vivere la morte come un rito collettivo.
Gli account non sono tutti accomunati dallo stesso destino. Alcuni vengono chiusi automaticamente dalle piattaforme stesse dopo mesi di inattività, come accade ad esempio con Twitter, che cancella ogni traccia passati i sei mesi di inerzia. Su TikTok, invece, se un account rimane inattivo per oltre centottanta giorni potrebbe essere rinominato, attraverso l’utilizzo di numeri casuali.
Diverse ancora sono le sorti degli account di personaggi celebri defunti, che oltre ad essere un libro di memorie, vengono tenuti aperti per dare una continuità artistica e per onorare l’impatto che hanno avuto nel loro campo. Si pensi per esempio a Chester Bennington, frontman dei Linkin Park, trovato senza vita nella sua residenza a Palos Verdes Estates in California il 20 luglio 2017. Il suo account colleziona giornalmente commenti di utenti e di fanpage della band, anche a distanza di anni. «I’m listening to your songs and I miss you, every fucking day», scrive una fan sotto un post di Instagram.
Oltre a diventare un potenziale luogo di commemorazione, i profili social sono anche una preziosa miniera di informazioni, a cui qualcuno potrebbe essere interessato. Un caso emblematico è quello di Carlo Costanza, chef di Agrigento, morto a venticinque anni in un fatale incidente d’auto nel marzo 2017. I genitori del ragazzo si sono rivolti ad Apple Italia, chiedendo di poter entrare nell’iCloud del figlio per accedere alla sua eredità digitale, forse nel tentativo di colmare il senso di vuoto lasciato dalla sua scomparsa.
«Questo interesse nell’accedere alle identità digitali si riscontra soprattutto da parte degli adulti nei confronti dei ragazzi – racconta Beatrice Petrella, giornalista e autrice del podcast “Still Online” -. La vita online fa parte della quotidianità delle generazioni più giovani, che lasciano molte tracce di sé sui vari device. Viceversa non succede così spesso agli adulti, che non sempre fanno un uso così massiccio dei social».
Nel tentativo di recuperare foto, video e ricordi custoditi all’interno dei device di chi ci ha lasciato, però, si corre inconsapevolmente un pericolo: imbattersi in informazioni e materiali di cui non si sarebbe voluto o dovuto venire a conoscenza. Insomma, si rischia di violare la privacy della persona defunta.
Ma si può parlare di diritto alla privacy per chi non c’è più? La morte fisica e la morte social non coincidono: alla fine della nostra esistenza i profili digitali continuano a esistere, in un certo senso ci sopravvivono. Terminare la vita online somiglia più a un atto che si avvicina all’eutanasia, piuttosto che a una morte spontanea.
Ma a chi spetta dare questo ultimatum, quello di porre definitivamente fine alla vita degli utenti? A chi affidare il compito di prendersi cura del peso, anche se virtuale, delle tracce di una vita?
Da qualche anno si parla di Digital Death Manager, una nuova figura professionale che si occupa di gestire gli aspetti pratici, legali, commerciali e finanziari degli asset digitali della persona defunta. Il suo compito è quindi di occuparsi dell’eredità digitale custodita gelosamente nel web. Questa nuova professione, tuttavia, non è ancora così consolidata in Italia.
Il mercato offre delle risposte ai bisogni dei consumatori, spingendo le persone a gestire con senno i resti digitali dei propri cari. Ci ha provato Moran Zur, ideando un’ app dopo la morte del padre e alla successiva diagnosi di tumore al cervello della moglie. Prima che quest’ultima morisse, infatti, il CEO temeva che il figlio di tre anni non avrebbe mai conosciuto la madre, così ha ideato SafeBeyond: una piattaforma che permette di accumulare foto, sms e video che consentono agli utenti di spedire messaggi al mondo dei vivi una volta lasciata questa terra.
Un tentativo italiano di offrire un servizio simile è stato proposto da e-Memory, un servizio che permette di organizzare, raccogliere e condividere ricordi digitali, memorie e documenti, costruendo una sorta di “casa digitale” dove conservare il proprio patrimonio virtuale in totale sicurezza e nel rispetto della privacy.
«Per ora il problema si pone relativamente – racconta a Linkiesta Beatrice Petrella -. Con il passare degli anni non ci sarà solamente bisogno di gestire i dati di un singolo profilo Facebook, ma anche Instagram, iCloud, Amazon e così via. L’identità digitale delle nuove generazioni è frammentata e disseminata nel web».
Forse è ancora presto, quindi, per preoccuparci di cosa ne sarà delle nostre edulcorate bacheche Pinterest o delle nostre app di delivery, ma è una questione che – prima o poi – dovremo affrontare.
Le piattaforme, intanto, stanno iniziando a muoversi. Basti pensare ad Apple, che offre la possibilità di designare un account erede: una persona di fiducia che potrà accedere ai dati archiviati nel proprio account in caso di decesso. Per farlo, è sufficiente essere in possesso di una chiave d’accesso generata nel momento della scelta del nuovo gestore e presentare il certificato di morte della persona deceduta.
Ma cosa succede quando una persona non è così lungimirante da pensare ad un possibile erede digitale o che semplicemente alla morte non ci vuole pensare, soprattutto se giovane? Nei casi di morte prematura o improvvisa il quesito che ci si pone è se si può effettivamente parlare di diritto alla privacy e all’oblio dopo il decesso e, più in generale, se i morti possono godere di diritti postumi. Nel 2016 l’Unione europea ha promulgato il Regolamento generale sulla protezione dei dati, esplicitando che tale normativa non si sarebbe dovuta applicare ai dati personali dei defunti, delegando agli stati membri il compito di legiferare in materia.
Due anni più tardi passa la riforma del codice sulla privacy a cui si appellerà la famiglia di Carlo Costanza presentandosi al tribunale civile di Milano. La riforma prevede la possibilità di accedere ai dati delle piattaforme digitali, a patto che la persona deceduta non avesse espresso volontà contraria mentre era ancora in vita.
La sentenza del caso Costanza ha costituito un precedente importante, aprendo la strada a diverse istanze che hanno portato a tutelare in via privilegiata gli interessi dei familiari. «Attualmente si sta dando precedenza al diritto della famiglia di accedere ai dispositivi dei figli, ma c’è una sorta di zona grigia, che smaschera un grande tabù: la mancata volontà di affrontare il problema», racconta Petrella.
«In Occidente viviamo infatti ancora all’interno di un contesto sociale e culturale che rifiuta tassativamente il pensiero della mortalità e tiene a debita distanza il corpo dei defunti – scrive Davide Sisto ne “La morte si fa social” -. Parlare di morte, durante un pranzo tra amici o in una trasmissione televisiva, è considerato tutt’oggi inopportuno, macabro e di cattivo gusto».
Parlare di cosa ne sarà di noi quando non ci saremo più sembra essere quindi un problema culturale, ancora prima che legale: l’ultimo e il più grande dei tabù, un groviglio che tra non troppo tempo dovremo iniziare a sbrogliare.
Ma forse, non è così corretto parlare di futuro. Si pensi ad Eterni.me, software sviluppato dall’imprenditore rumeno Marius Ursache, che promette ai propri utenti l’immortalità digitale: grazie a dei nuovi algoritmi e all’uso dell’intelligenza artificiale, permette di creare un avatar virtuale capace di interagire anche dopo la scomparsa biologica dell’utente, ricalcandone la personalità e interiorizzandone, in un certo senso, la coscienza, dando adito alle ansie di Charlie Brooker, che non avrebbe mai sperato che San Junipero diventasse reale.
Ma questi software sono una risorsa che può fornire un supporto nell’elaborazione del lutto o sono un ulteriore tentativo di esorcizzare la paura della morte? Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Martina Ferrari, psicologa specializzata in Psicoanalisi della relazione. «Il lutto è qualcosa di estremamente difficile da elaborare e quando perdiamo una persona cara tendiamo a cercarne le tracce e i ricordi all’interno dei nostri device».
Avendo a disposizione queste nuove tecnologie, quindi, qualche utente potrebbe essere interessato a provarle. Ma la predisposizione ad approcciare questo tipo di esperienza dipende in gran parte dalla personalità del singolo e dal tipo di relazione che quest’ultimo aveva con la persona defunta.
Per iniziare a elaborare un lutto, per renderci conto della materiale assenza della persona a noi cara mediamente occorrono sei mesi. «La cosa importante è che la persona stia bene e che sia in grado di continuare a vivere la propria vita – afferma Ferrari -. Non possiamo obbligare il singolo ad elaborare il lutto come da manuale: ogni relazione ed ogni esperienza è diversa e richiede tempi e modalità differenti». Per questo motivo demonizzare le nuove tecnologie di AI potrebbe essere un’occasione sprecata.
«Dobbiamo tenerci aperti alla complessità e capire pian piano che risorse ci può offrire questo tipo di servizio. Bisogna comunque fare attenzione all’uso di questi software: elaborare un lutto è un’esperienza molto personale e la prescrizione di tali strumenti deve essere cucita su misura del singolo», conclude la professionista.
Il tentativo di mettersi in contatto con l’ultraterreno è uno degli archetipi che ha accompagnato – e tuttora accompagna – l’essere umano nel corso della storia. Con l’intelligenza artificiale la contiguità dei due mondi si fa tangibile: l’aldilà viene desimbolizzato e portato ad un piano di realtà. Il contatto con chi non c’è più sembra finalmente possibile e come cantava Belinda Carlisle forse “Ohh, Heaven is a place on Earth”.