L’esito, al contempo drammatico e grottesco, della vicenda del partito unico del Terzo polo conferma quanto tutti sanno, ma tanti hanno finto di ignorare: le liste elettorali nascono dai partiti, ma i partiti non nascono dalle liste elettorali. L’esperienza di Più Europa avrebbe dovuto insegnare qualcosa nel merito.
Nel caso più recente, si trattava oltretutto di una lista elettorale, quella di Italia viva e Azione – diciamolo – piuttosto raccogliticcia. Per entrambe le forze, infatti, la scelta di correre in autonomia, rappresentò un piano B: per entrambe il piano A consisteva in una lista comune col Partito democratico. Poi Enrico Letta ha detto di no a Matteo Renzi e Carlo Calenda ha finito per dire di no a Letta, così i due hanno scelto di correre insieme. Cosa li ha indotti alla scelta di una lista unitaria? Il comune afflato verso l’idea di un partito liberal-democratico? No, si trattò di calcoli ben più utilitaristici: Italia viva temeva di non raggiungere il quorum, Azione temeva di non riuscire a raccogliere le firme in tempo utile. Insomma, uno aveva bisogno di voti, l’altro aveva bisogno di firme.
Ma i militanti e gli appassionati, si sa, sono romantici e hanno intravisto in questo fidanzamento di interessi, l’embrione di un felice matrimonio, così hanno indotto i due leader a procedere sulla via del partito unico.
Renzi, per ragioni in gran parte condivisibili, non ci ha mai creduto fino in fondo e, procedendo con scetticismo e prudenza (anche la scelta del «passo indietro» lo testimonia), ha finito per immaginare una federazione travestita da partito. Calenda ci ha creduto più per ambizione che per visione e ha gestito il processo in modo verticistico, personalistico e velleitario. I due hanno avuto comportamenti molto differenti: con un’iperbole potremmo definire l’atteggiamento di Renzi «più abile che onesto» e l’atteggiamento di Calenda «più ambizioso che abile». Sta di fatto che entrambi condividono la responsabilità del fallimento.
Non sono gli unici responsabili, anche i liberal-democratici di Lde che Calenda indicava come terza gamba del futuro partito, hanno la loro quota di responsabilità. La loro responsabilità consiste nell’aver scelto il quieto vivere, nell’essere stati alla finestra ad attendere gli eventi, nell’aver rinunciato a giocare un ruolo attivo nel processo di costituzione del partito.
Ora è partita la disputa volta a intestarsi la paternità del Terzo polo. Tanto Italia viva quanto Azione rivendicano, ognuno per sé, la primogenitura del progetto e il diritto a rappresentarlo. Lde, ritenendosi scevra di responsabilità, si propone come la nuova locomotiva. Anche quelli di Più Europa, indiscussi esperti in materia di fallimenti e mancati successi, partecipano alla contesa.
Qualcuno pensa che il riscatto possa e debba derivare dalla partecipazione alle prossime elezioni europee: sembra che i gruppi dirigenti responsabili del fallimento, non comprendano di aver perduto ogni residua credibilità nei confronti dell’elettorato e non vedano l’ora di iniziare a scannarsi per una candidatura in una lista che non garantirebbe neppure mezza poltrona. Una lista dove comparissero i simboli dei partiti responsabili del disastro e i loro leader, infatti, sarebbe appetibile solo per pochi amatori e sarebbe offensiva nei confronti di chi continua a coltivare l’idea di dare davvero vita a un partito liberal-democratico.
Per dare vita a una proposta alternativa al bipolarismo populista, ci vogliono idee, ci vuole coraggio, ci vuole apertura, un nuovo partito non nasce dai politicismi dei comitati chiusi, occorre convogliare energie provenienti dalle più diverse aree, perché solo con un posizionamento davvero trasversale, oltre i vecchi paradigmi, la proposta alternativa al bi-polarismo populista potrà essere rivolta a tutti gli elettori.
Quali potranno essere gli attori di questo nuovo percorso? Non lo so, ma non potranno che essere volti nuovi, mossi dal coraggio di ripartire da un foglio bianco.