«Erano solo le nove del mattino e la cucina era già traboccante, ogni angolo e ripiano era occupato dalle prelibatezze di Marjan. Le verdure marinate (torshi di mango, melanzane con il solito assortimento di sette spezie) riempivano fino all’orlo i grandi recipienti trasparenti posati sul tavolo al centro della cucina. […] E a sobbollire sui fornelli c’erano una piccola pentola di zuppa di cipolle bianche, l’ultima pentola di zuppa di lenticchie rosse e una pentola più grande di abgusht, una ricca pietanza a base di agnello, piselli spezzati e patate. Quest’ultima ricordava a Marjan le sere di inizio primavera in Iran, quando i fiori di ciliegio tremavano ancora sotto le ultime gelate e i samovar fischianti aiutavano a lavare via il retrogusto di zafferano e lime essiccato con del buon tè nero Darjeeling».
Avete mai letto “Caffè Babilionia”? Se non l’avete fatto, il consiglio è quello di porvi rimedio. Perché la storia di Marjan, giovane donne persiana, fuggita dall’Iran khomeinista per la verde Irlanda e raccontata da Marsha Mehran, vi farà venire l’acquolina in bocca e vi condurrà, attraverso un viaggio fatto di spezie e di intingoli caldi, in luoghi lontani. Il cibo, in questo libro, fa da filo conduttore. Unisce i puntini tra culture diverse, modi di vivere e cucine diametralmente opposte, che però trovano un punto d’incontro davanti alla convivialità della tavola.
D’altronde è proprio questo il potere primordiale del cibo. Viaggia, si sposta, si contamina e unisce. O divide, a seconda dei punti di vista. Quel che è certo è che il cibo è racconto e cultura dei popoli, nutrimento dell’animo, legame con la terra.
Il cibo è integrazione
Il cibo è integrazione. Non poteva che iniziare così la seconda edizione del Festival di Gastronomika. Con il tempo dell’accoglienza, il tempo dell’altro, delle culture che si mescolano fino a diventare un qualcosa di ancora diverso. La storia del mondo ce lo insegna: attorno ad un piatto possiamo incontrare le persone, le possiamo comprendere, ci possiamo avvicinare. E, allo stesso modo, attorno a quel piatto si possono costruire ricordi e identità. «Mi piace sempre menzionare Mario Soldati quando diceva che il miglior modo per conoscere un popolo è conoscere le cucine che lo abitano» confessa, in apertura al Festival, Maurizio Martina, vice-direttore generale della Fao. «Il cibo è uno strumento potentissimo di integrazione, quando lo si usa come conoscenza degli altri e delle diversità. Ma può essere molto pericoloso quando viene utilizzato in modo simbolico, di rottura verso gli altri. Allora diventa uno strumento di divisione. Perché attorno al cibo si possono costruire barriere economiche, identitarie e sociale. Usare intelligentemente le esperienze enogastronomiche per praticare l’integrazione è una scommessa straordinaria».
Quanta verità dietro poche parole. Lo vediamo, lo sentiamo. Ci barrichiamo spesso dietro l’orgoglio di una pizza per celebrare la nostra preminenza sugli altri, usiamo le ricette tradizionali per segnare confini di stato e dogane, laddove ci sentiamo minacciati dal diverso. Scorrendo tra le pagine dei libri di storia, riusciamo bene a comprenderlo questo concetto. Lo ha ricordato bene anche Michele Antonio Fino in un altro momento del Festival, parlando del cibo riferito alle religioni: i divieti gastronomici diventano la chiave di lettura per riconoscersi in un popolo. O meglio, per non riconoscersi in un popolo diverso dal proprio, per urlare la propria unicità.
Il cibo è opportunità di riscatto
Eppure il cibo può essere meravigliosamente un modo per ritrovarsi. Per cercare nuove vie e trovare il proprio posto nel mondo. «La bocca è la prima parte del corpo con cui veniamo a contatto da bambini e la tavola è il momento in cui ci si conosce in famiglia, ci si incontra e si risolvono i problemi. L’integrazione non può che passare dalla tavola, come facilitatrice della conoscenza e della rottura del pregiudizio». Lei è Gaia Trussardi, nata nel lusso del made in Italy, ma che attraverso il centro di accoglienza per profughi di Bresso è riuscita a cogliere il legame stretto tra il cibo e la possibilità di un riscatto sociale. Nel 2022 ha dato vita a Marcel Boum, un locale di street food africano, che prende il nome (vero) e il cognome (di fantasia) di uno dei tanti ragazzi che hanno affrontato il Mediterraneo per provare a rinascere in quella che, sotto certi aspetti, è la parte “giusta” del mondo, quella in cui non si muore per fame, per guerra, per ideali, religione o pregiudizi. Eccolo, il cibo che si fa mezzo di nuova vita, di opportunità e del racconto di una cultura lasciata al di là del mare, ma mai rinnegata e abbandonata.
Il cibo è riconoscersi nelle origini
Pensiamoci: il riso condito con un filo d’olio e una spolverata di parmigiano ci fa venire in mente nostra madre e le giornate in cui, da bambini, non stavamo benissimo. Le coccole, lo stare a casa da scuola. Le polpette al sugo e la scarpetta finale con il pane, invece, le domeniche in famiglia, magari dopo una gita fuori porta prima di pranzo. Le lasagne, le tavolate a casa di nonna per Natale. Il cibo è ricordo, è connessione familiare con le persone e con i luoghi. Basta chiudere gli occhi di fronte ad un piatto preciso per riportarci alla mente situazione e sensazioni. Non potrebbe essere altrimenti. Il cibo è talmente autentico che spesso, quando viaggiamo (e soprattutto se viaggiamo come lo facciamo noi, che di cibo ci occupiamo per lavoro) ci piacerebbe entrare sempre in contatto con quella parte vera e reale delle nostre destinazioni. La maggior parte delle volte, invece, finiamo schiavi del tessuto ristorativo turistico, quello che mette in fila le insegne con i menu, scritti quasi in copia carbone. Un tranello a cui i viaggiatori non possono sottrarsi per la fame, o anche per mancanza di informazione o ignoranza culinaria. Rimaniamo in Italia: i locali pullulano di tagliatelle alla bolognese. Poco importa se ci troviamo ad Aosta, a Messina o Trieste. Il gastro-appiattimento è lì, dietro ogni angolo di strada.
«Quando si viaggia la cosa più bella sarebbe essere invitati a mangiare da una famiglia del luogo. Per conoscere le persone, le storie e il loro punto di vista sulla cucina». Giulia Ubaldi ha le idee ben chiare su questo argomento. Tanto che lei, antropologa di professione, ha deciso di creare, a Milano, un luogo dedicato proprio alle cucine del mondo, viste però da uno scorcio mentale differente: quello di chi quelle cucine le vive o le ha vissute come casa. Il LAC è questo, un laboratorio antropologico del cibo, dove ogni giorno, tra i fornelli, si alternano le persone e le loro storie più diverse. Unico requisito comune fondamentale: la passione per la cucina e per il cibo. Ed ecco che i corsi del LAC sono la scusa per chiacchierare, per viaggiare nello spazio di due ore, per conoscersi e per immergersi in culture profondamente differenti dalla propria.
Il legame con la tradizione (o meglio, le tradizioni) emerge di nuovo e con forza. Perché il cibo può essere proprio lo strumento per provare a ricongiungersi con il proprio passato, le proprie radici. E magari farci pace, trovare un equilibrio.
Gabriel Renteria Linda è il cuoco messicano del LAC. Le sue origini sono una mezcla, una mescolanza tra sangue italiano e sangue messicano. Per mestiere, insegna musica, ma la cucina è importante quanto il primo lavoro. «Avevo bisogno di qualcosa che mi aiutasse a tenere insieme le parti di me. Come parte terapeutica, recuperando ricette che avevo visto fare da mia nonna a Delicias, nello stato del Chihuahua. Provare a rifare quelle ricette era un sentirmi in contatto con quelle persone e con quelle storie. Perché diventa cruciale trovare il modo di far stare insieme queste due parti, quella italiana e quella messicana: io l’ho fatto con la cucina» ci racconta durante il suo intervento al Festival. «Le differenze tra le persone spesso sono evidenti, se pensiamo al colore della pelle, a volte più sottili e bisogna acuire lo sguardo per non perdersi delle sfumature, che in realtà ci rendono tutti diversi e preziosi. Le persone hanno bisogno di apertura. E invece spesso, per la maggior parte della gente, le ricette o sono autentiche o sono fake, ma l’autenticità in cucina c’è quando dietro quel piatto c’è un’esperienza o una storia. Le persone viaggiano, sono meticce e le ricette sono meticce di per sé». Questo un po’ ci rincuora: non siamo solo noi italiani a farci la guerra per la carbonara (cipolla sì, cipolla no, guanciale o pancetta). Tutto il mondo è paese.
Dello stesso parere è anche Shake’ Sona Pambakian. Lei è armena, vive in Italia, ma la sua famiglia, anche quella di destinazione, è armena da sempre. E il popolo armeno, lo sappiamo, vive un esodo continuo. Forse la cucina diventa ancora di più un modo di ricostruire l’identità perduta, mantenendo però uno stretto legame con il territorio in cui ci si trova. «L’integrazione non è una ricetta, ma inserire un prodotto diverso da quello che potrei trovare nel mio Paese: cerco di far entrare un ingrediente locale e vedo se riesco ad integrarlo dentro la ricetta. Per mettere il mondo che mi accoglie all’interno delle mie origini» ci spiega. «La cucina non solo è meticcia, ma è un modo per esprimere chi sono e chi sono le persone che mi stanno accogliendo nel mondo. Ma è anche il qui e ora. La cucina di ieri non è la cucina di domani, nonostante il cibo è per me un modo per riportare la dolcezza del mio Paese perduto, un home again, di nuovo a casa.
Eppure c’è chi a casa davvero non ci è neppure mai stata, ma che ritrova nei suoi sapori quella tenerezza che si può riservare solo a qualcosa che si ama davvero. «Il cibo risolve tutto. Quando mangi un makluba (un piatto con riso, carne e verdure) senti un’emozione e quell’emozione ti riporta al tuo Paese. Riconoscersi solo in un’origine vuol dire non riconoscersi proprio, ma il cibo ti può dare la risposta». Majdulin Shehadeh è giovanissima e ha un viso dolce quando parla della cucina di sua madre seduta in prima fila ad ascoltarla sul palco del Festival di Gastronomika. «Non gliel’ho mai detto prima, ma quando cucino cerco di ispirarmi alle sue ricette» ammette commossa. Lei è palestinese, ma in Palestina non ci ha mai messo piede. E un po’, al pensiero che tu invece ci sei stato in vacanza, ti senti in colpa. Ma la Palestina l’ha trovata nei sapori condivisi a tavola in famiglia. A metà strada tra il mangiare italiano e quello palestinese («Mamma dai, fai la pizza per cena»).
Eccolo il cibo che unisce, che diventa la via per ritrovare la strada, per ricongiungersi.
Noi ora lo possiamo confessare: questo primo talk del Festival ci ha commosso. Le storie delle persone ci commuovono. E in fondo è un po’ il significato che per noi ha il cibo, che rappresenterà sempre le storie delle persone, anche nei nostri racconti.