«Mi sono sentita obbligata a scoparmi qualcuno per scriverne, e quindi l’ho fatto». Quando nasce Jezebel, nel maggio del 2007, io ho trentaquattro anni e nessun interesse per un sito che crede che dire le parolacce parlando di argomenti femminili sia trasgressivo.
Nessun’adulta crede che sia rivoluzionario scoparsi qualcuno per scrivere: alle medie leggevamo tutte Erica Jong, sappiamo che si fa da prima che nascessimo. Tuttavia, Jezebel riesce a fare quel che nel decennio successivo riuscirà a Instagram: sembrare sovversivo ma rassicurante, sembrare empatico ma senza filtri, sembrare la prima e l’ultima testata femminista.
L’intuizione è capire che c’è una nuova generazione di consumatrici completamente priva di memoria storica: puoi fare Cosmopolitan, e fingere che sia un modulo che ti stai inventando tu, qui, ora. Non è giornalismo, «è guerriglia emotiva», dice Ben Smith in “Traffic”, il saggio appena uscito in cui ricostruisce le storie di Buzzfeed e Gawker (Jezebel era un’emanazione di Gawker).
Smith non ha chiaramente mai letto i femminili, e quindi anche lui si lascia convincere della rivoluzionarietà autocertificata delle ragazze alle quali Nick Denton (il proprietario di Gawker) dice: insomma, non è che dovete sempre fare robe sull’aborto e lo stupro e il mestruo, ogni tanto occupatevi anche di belletti.
Smith è un uomo, e quindi crede che le leggi sull’aborto (nei paesi che ce le hanno) le abbia ottenute chissà chi, e le riviste di belletti non abbiano avuto alcun peso nell’orientare l’opinione pubblica; ma è una grande intuizione quella secondo cui Jezebel pose le basi del troiaio che sarebbero poi diventati i social media (che all’epoca stavano nascendo e non sarebbero stati rilevanti ancora per qualche anno).
«Il sito prese l’identità e la rese politica» è una buona sintesi della deriva che ha preso l’informazione negli ultimi quindici anni (e anche della deriva d’un certo slogan di cinquant’anni fa). La relazione delle lettrici con chi scriveva era «intensa in misura disturbante», che è quel che possiamo dire oggi dei commenti sotto gli articoli sui social, ma allora almeno si trattava di lettrici quindicenni (a parte qualche mia coetanea che aveva già capito che la semplificazione costituiva futuro reddito e bisognava allevarsi un pubblico di sceme).
Riavvolgimento del nastro. Anni Cinquanta. Mancano più di vent’anni a quando Judith Krantz pubblicherà “Scrupoli”, diventando una delle romanziere più vendute del mondo. Krantz comincia – come tutte quelle per cui è più importante fatturare che stare nelle rassegne stampa – dai femminili.
Elenco non esaustivo di proposte di articoli che fa ai suoi capi quando lavora a “Good Housekeeping”, nei primi anni Cinquanta: La maglietta, anatomia di uno status-symbol; Il problema di essere troppo bella; Ricettario d’emergenza per mariti; Prontuario etico per la divorziata; Il più temibile tipo d’ostilità, quella amichevole. Quest’ultima idea di articolo rende evidente cosa intendesse Krantz quando raccontava che nei femminili ci rimpalliamo da un secolo le stesse idee: erano gli anni Cinquanta, e già spiegavano come cavarsela con le amiche passivoaggressive. Figuriamoci se a Jezebel potevano inventarsi qualcosa.
La questione però è un’altra (la questione è sempre un’altra): i soldi (la questione sono sempre i soldi). Ricopio dall’autobiografia “Sex and shopping: the confessions of a nice jewish girl”, che Krantz pubblicò a 72 anni (era nata nel 1928).
«Nel corso di quegli anni ho ingaggiato e licenziato tre diversi agenti: mi procuravo da sola ogni lavoro e non vedevo ragione di pagar loro il dieci per cento, quando combattevo vittoriosamente (combattevo, non trattavo) con ogni direttore per venir pagata il massimo possibile. […] Quando mi diedi ai romanzi, erano parecchi anni che prendevo quei tremilaecinquecento dollari ad articolo che erano la tariffa più alta nelle riviste femminili».
Il conto della svalutazione, della rivalutazione, del costo della vita, di quello delle case a metro quadro e della cifra che adesso dovrebbe valere un pezzo, in un femminile, se tra gli anni Sessanta e i Settanta (“Scrupoli” viene pubblicato nel 1978) un articolo che un femminile giudicava importante avere lo pagava tremilaecinquecento dollari, quel conto lì fatelo voi.
Quel che posso dirvi io è che la ragione per cui nessun femminile ha quelle cifre da darvi, la ragione è Instagram. È che se metto una borsetta addosso a Chiara Ferragni la vedono milioni di potenziali compratrici, e quindi cosa me ne può fregare di comprare una pagina di pubblicità tra il tizio che la scrittrice X s’è scopata e l’arringa della scrittrice Y contro la violenza. E la ragione siamo noi: io, voi, tutte, che quando ce ne stiamo sedute con la tinta in testa prendiamo a ditate il telefono, mica sfogliamo un giornale sul quale una futura Judith Krantz ci spiega come evitare che nostro marito muoia di fame mentre siamo in vacanza (oltretutto su una rivista di carta non possiamo polliciare i mipiace e commentare raccontando gli affari nostri, e gli unici affari che ormai c’interessino sono i nostri, mica quelli di Judith Krantz).
Il giorno del suo lancio, Jezebel offriva diecimila dollari di taglia a chi era in grado di portare le foto dei servizi patinati originali, le versioni di prima del ritocco fotografico. Adesso nessun sito potrebbe permettersi quel budget, certo; e certo, adesso la moralina non si fa al fotoritocco ma ai filtri di Instagram (il dovere di mostrarsi al naturale, una puttanata come raramente ne sono state pensate, continua a venire propalato da chi vuole sentirsi frivola ma etica).
Ma la questione è un’altra, e per una volta non sono i soldi. Un conto, scriveva la direttrice nell’editoriale di lancio e riporta Smith senza dar mostra di capire il sottinteso, «è dire che i direttori di giornale ci ingannano; un altro è farlo vedere».
Era il maggio del 2007, Jezebel sembrava solo un sito di scalmanate, e invece stava distruggendo il patto tra giornali e lettori: non crederò mai più a una cosa che mi racconti, se non me la fai vedere.
Un attimo dopo sarebbero arrivati i telefoni con la telecamera, non c’erano più scuse per accontentarci delle parole. Chi se ne frega di Hemingway o della Fallaci e di quel che hanno da raccontarci sulla guerra o su altro: come dicono i frasifattisti dell’internet, pics, or it didn’t happen.
E anche quello che ti sei scopata, mica pretenderai che mi legga cinque cartelle di cronaca o trecento pagine di romanzo: non ce l’hai un filmato? Non troppo lungo, sennò m’affatico.