Da poco è uscito in libreria “I primaverili” (La Nave di Testo) di Luca Ricci ultimo tassello della quadrilogia delle stagioni che si è composta negli anni con la pubblicazione de Gli autunnali (2018), Gli estivi (2020) e Gli invernali (2021).
Partiamo dalla fine. Dopo questi quattro romanzi che farai?
Torno al racconto.
Torni indietro?
Torno all’origine. Sulla mia tomba leggerete: “Scrittore di racconti”.
Quindi una raccolta di racconti?
Sì, esce l’anno prossimo per la Nave di Teseo. Elisabetta Sgarbi sa che in tenera età sono stato posseduto dallo spirito di Guy de Maupassant, novelliere eccelso.
Quanti racconti hai scritto?
Ho perso il conto, cerco di scriverne di continuo. È come respirare. La verità è che nei momenti in cui non scrivo un racconto mi prende la depressione.
Parliamo anche dei tuoi romanzi o preferisci di no?
I miei romanzi parlano di quello di cui la letteratura ha sempre parlato: vita, morte, amore, Dio. I problemi senza soluzione sono l’ossessione della letteratura. Per tutto il resto c’è la scienza.
Scrivere non risolve nessuno di questi problemi?
Pensa alle classiche domande senza risposta. Perché nasciamo? Perché moriamo? Qual è lo scopo della vita? Siamo soli nell’universo? La letteratura che piace a me è un infinito rimuginare su queste domande. Non importa se sono insolubili, l’importante è continuare a pensarle, non perdere contatto con la nostra umanissima finitudine, spaesamento, mortalità.
E ne I primaverili tutto questo come si traduce?
Non farmi raccontare la trama, ti prego. Detesto queste sinossi promozionali.
Dobbiamo farlo.
Uno scrittore e una libraia. Avrebbero tutto per essere felici ma lei impone a lui un rapporto bianco, insomma non possono scopare. È una coppia fuori norma – tutta la quadrilogia si basa su coppie mostruose – per riflettere sulla nostra presunta normalità.
Nessuno è normale?
Me lo auguro, la normalità a pensarci bene è la cosa più mostruosa. Non credo alla normalità, alle esistenze che scorrono quiete senza una qualche forma di squilibrio, di follia.
La letteratura come rispecchiamento?
Attraverso una distorsione, la grande menzogna di immaginare vite fittizie. Prediligo gli specchi della casa stregata.
Sei contrario all’autofiction?
L’autofiction può essere grande letteratura, ma c’è il rischio di diventare schiavi dell’io. Dall’autofiction ai pensierini della Smemoranda il passo può essere brevissimo. Inoltre oggigiorno chiunque fa autofiction sui social, quindi la letteratura deve stare da un’altra parte.
Non è un discorso un po’ snob?
Più che snob sono una pecora nera. Sempre stata. Ne sono consapevole. Bevo l’amaro calice.
Nei Primaverili e in tutta la quadrilogia non si sprecano frecciate al mondo culturale ed editoriale. La rabbia di Bianciardi ti appartiene?
M’interessa rappresentare e non denunciare. I romanzi non sono tribunali ma organismi vivi, quindi pieni di chiaroscuri e contraddizioni. M’interessa l’abiezione ma anche la grazia di certi posti, per esempio della RedazioneCultura.
In RedazioneCultura parlano per aforismi alla Ennio Flaiano. È una scrittura fulminante che usi spesso, che sembra togliere peso, alleggerire. Non corri il rischio di non essere preso sul serio?
Dietro all’aforisma c’è sempre una postura tragica: quella di non poter più dare spiegazioni, per mancanza di voglia o di senso. L’aforisma è una conclusione senza ragionamento, è un pensiero sfinito. Uno dei più grandi pessimisti del novecento era uno scrittore di aforismi: Emil Cioran.
Il mondo culturale è davvero così pessimo come lo dipingi?
Lo conosco ma lo frequento solo se costretto. Dico sempre di essermi andato a rintanare a Roma quando mi chiedono dove vivo, cosa che con ogni evidenza è un controsenso.
È un mondo conformista?
Abbiamo appena parlato di Bianciardi e Flaiano. Lo scorso anno del primo ricorreva il centenario della nascita, del secondo il cinquantenario della morte. E, prevedibilissima, una fila d’imbecilli a metterci il cappello.
La produzione letteraria è standardizzata come dicono?
Son tutti detective che danno la caccia ai propri demoni. Mai che un demone dia la caccia al proprio detective. Per dire.
Non esiste più la letteratura impegnata?
Sono contrario anche a quella. L’impegno rinsalda le certezze, la letteratura le distrugge. Non si dovrebbe mai darsi a un impegno programmatico quando si scrive.
E la letteratura che rivendica i diritti?
La letteratura è diventata tutta una questione di amiche per la pelle, sorelle in lotta tra loro, orfanelle in attesa del riscatto, figlie e madri e nonne logorroiche, spose ribelli. Non è impegno, è seguire pedissequamente una moda.
Saltiamo la domanda sulla critica letteraria, che dici?
La critica letteraria non dovrebbe mai essere separata dall’amore verso ciò di cui si occupa, cioè i libri e gli scrittori. Ecco perché il discorso è impossibile da affrontare. Poi, ok, c’è anche la sciagura dei like.
Una televisione davvero culturale è possibile?
La tv fa il pop, che a modo suo è una forma culturale. I tempi televisivi non sono fatti per il ragionamento intellettuale. Lo schema televisivo è polarizzato. Vale per qualunque cosa, per qualunque discorso. Sì o no. Immaginiamo un talk sul sapore della merda. Un primo ospite dice che la merda è cattiva, un secondo invece dice che è buona. E questo è tutto.
Vuoi parlare di politica? Scrivi su giornali di sinistra ma spesso hai pensieri di destra. Come la risolviamo?
La politica mi annoia moltissimo. Posso solo constatare che grazie ai social siamo dentro a una campagna elettorale perenne. Il buon cittadino è uguale al buon tifoso, lo schema è quello dualistico dei talk tv. Ogni scusa è buona pur di non governare.
Premi letterari?
Per ora ho vinto poco, ma temo che non potrà andarmi bene per sempre.