Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.
Il tema; la lista degli invitati; i prezzi per acquistare un biglietto (esorbitanti e soggetti all’inflazione); il dress code. La prima settimana di maggio, nelle redazioni dei giornali di moda non si parla d’altro. C’è il Met Gala. E tra liste di best dressed (anche se è ovviamente più interessante quella dei worst) pettegolezzi e controversie, si è perso il senso di un evento che è nato con uno scopo nobilissimo, quello di sostenere economicamente l’ala museale del Met dedicata alla moda.
Quello che oggi è un grandissimo show mediatico, una modalità intelligente e social che rivede le attività di beneficenza, considerate operazioni ammirevoli ma sostanzialmente un po’ fané, nasce in effetti privo di lustri, merletti, telecamere e social, anche perché la prima edizione è del 1948. Se quest’anno infatti il gala è stato dedicato a Karl Lagerfeld (il titolo dell’evento era “Karl Lagerfeld: a line of beauty”), nel 1948 non esisteva alcun tema, tantomeno un dress code, anche perché i partecipanti all’evento erano di base personalità che operavano nella moda e titani d’industria, non certo celebrities, dive di Hollywood o influencer a vario titolo.
Un po’ di cenni storici
L’idea venne alla giornalista Eleanor Lambert, grande promotrice della moda americana all’estero e sostanziale mente dietro la creazione della fashion week newyorchese. Si doveva trovare il modo per finanziare l’appena aperta ala del Costume Institute del Met, il Metropolitan Museum of Art di New York, e la soluzione classica, organizzare una cena a pagamento con facoltosi industriali di buona volontà, in concomitanza con l’apertura della mostra annuale, sembrò la migliore. Per comprare il biglietto della serata, comprensivo di cena di gala, si doveva sborsare la bellezza di cinquanta dollari, che per l’epoca erano comunque una cifra ragguardevole.
A presenziare, come si è già detto, era l’alta società cittadina, munifica abbastanza da voler sostenere un ente culturale, ma l’evento in sé non era molto diverso dalle altre raccolte fondi alle quali l’un per cento del mondo – quello dei Paperoni con CAP dalle parti dell’Upper east Side, i Vanderbilt, i Getty, i Rockfeller – si dedicava come antidoto alla noia quotidiana, o forse per reale senso civico. La raccolta fondi, inizialmente, si teneva non certo all’interno del Met, come succede oggi, ma in location diverse ogni anno: c’è stata la Rainbow Room, all’interno del Rockfeller Plaza, il Waldorf Astoria, ma anche Central Park.
Il primo sostanziale cambio di rotta a favore di un evento molto più spettacolare arriva nel 1972, quando Diana Vreeland, ex direttrice di Vogue America già entrata nella storia mentre era ancora viva – a questo proposito è sempre bene ricordare il documentario a lei dedicato, The eye has to travel, del 2011 – diventa consulente “tecnico” del Met. Il parterre degli invitati si allarga, facendo spazio alle celebrities in voga all’epoca: Liza Minelli, Cher, Bianca Jagger, Andy Warhol, Diana Ross. Insomma, tutti quelli che, in una sua celebre canzone, Amanda Lear aveva definito “fashion pack”, il branco della moda, una selezionata élite di ricchi e belli che animava le serate dello Studio 54, e le case dei più influenti stilisti dell’epoca, come Liza Minelli, amica e musa di Halston.
Altra trovata della vulcanica Vreeland è quella di introdurre “il tema”, ossia accompagnare alla mostra, un dress code correlato. Il primo? The World of Balenciaga, che ebbe come sponsor principale niente meno che il governo spagnolo, mentre oggi le nuove potenze e sponsor principali non sono più i dipartimenti culturali dei singoli stati ma Yahoo, Apple, Amazon, Farfetch, Moda Operandi e molti altri.
I temi più significativi
Segnaliamo quello del 1997, dedicato a Gianni Versace scomparso da qualche mese; i venticinque anni di carriera di Yves Saint Laurent (1983); Christian Dior (1996); i costumi dei Ballets Russes di Diaghilev (1978). Infine, si decise che il Gala sarebbe andato in scena proprio al Museo. Così è iniziata la liturgia dell’arte come spettacolo, ma anche dei co-chairs, persone di spicco nell’alta società che aiutavano Vreeland a organizzare l’evento – e che, di base, ne sponsorizzavano l’entità benefica con altri munifici contatti del loro facoltoso network.
Per molti anni questo ruolo è andato a Pat Buckley, moglie dello scrittore e attivista repubblicano William Buckley Jr, ma l’onore è toccato anche a Jacqueline Kennedy e alla principessa di Grecia Marie Chantal, il designer Bill Blass, donne delle famiglie Koch e Getty e più di recente a Miuccia Prada, Tom Ford, Ralph Lauren, Kate Moss e Oprah Winfrey, fino ad arrivare al team di stelle messo insieme dalla Wintour che per ogni edizione si fa affiancare da quattro co-chairs, scelti tra le celebrities e i designer più ricercati del momento.
Nel 2021 c’è stato Timothée Chalamet, la poetessa Amanda Gorman, Billie Eilish e la tennista Naomi Osaka, mentre per l’edizione 2023 ci saranno Dua Lipa, Penelope Cruz, Roger Federer (la Wintour per chi non lo sapesse è grande amante del tennis, e profonda estimatrice di Federer) e Micahela Coel. Un cambiamento nella scelta delle personalità che dimostra come si sia modificato il concetto stesso di rilevanza – non più quella legata alla casualità del rango, alla famiglia di provenienza – ma più vicina ad un concetto pop, nel senso di popolare, pervasivo, noto alle masse e per questo interessante anche per una fetta di popolazione che pur non potendo permettersi di prendere parte all’evento, è interessata al suo svolgimento.
Prezzi, regole e vincoli
Se non ci si può partecipare al Met Gala, è per due ordini di motivi: uno, quello più banale, è lo sbarramento economico. Oggi, comprare un biglietto per l’aperitivo e la cena di gala, spesso vivacizzata da qualche performance musicale, costa intorno ai trentamila dollari, mentre riservare un intero tavolo può arrivare a farvi spendere 275mila dollari (a svelarlo è stato nel 2018 il New York Times). L’altro è che, seppure qualcuno dei fortunati all’ascolto potesse permettersi tale cifra, la lista degli ospiti è ad oggi validata, verificata e approvata da Anna Wintour.
Anche laddove i brand modaioli, che da ormai più di vent’anni sono i principali sponsor dell’evento, comprino “il tavolo” e decidano di farci sedere, come ospiti, celebrities e personaggi a loro affini, non c’è molta libertà di manovra. Pur avendo acquistato il tavolo, il brand non ha la totale libertà di scegliere i propri invitati che devono ricevere tutti il bollino di approvazione della direttrice Wintour. Regole e limiti che, quest’anno stanno scatenando panico e meme in egual misura, in quanto sono trapelate indiscrezioni sul giornale scandalistico Page Six, secondo le quali per la prima volta dopo anni, dall’evento potrebbe esser escluso tutto il folto clan dei Kardashian-Jenner.
Quando questa puntata andrà in onda sapremo già se questa indiscrezione nascondeva della verità o invece è stata una semplice illazione. Vogue non ha infatti commentato la faccenda, e si sono moltiplicate le teorie per giustificare il probabile mancato invito di una famiglia che si è fatta roccaforte della pop culture più trash, ma che in effetti negli ultimi mesi sta faticando a tenere il passo con social come TikTok, che richiedono autenticità e freschezza, caratteristiche di cui il clan più levigato e artificioso della tv americana, non ha più nessun ricordo.
La fine del rapporto di Kim con Kanye – rapper che l’ha introdotta, un po’ di forza, nel mondo della moda, portandola con sé all’evento – così come la probabile fine del rapporto di collaborazione con Balenciaga, ha di certo diminuito la loro presa sul mondo del lusso, nonostante nessuna di loro manchi di ingaggi, copertine o attenzione (Kendall Jenner era sulla copertina di aprile di Vogue Italia, Kim è co-autrice del rinascimento di Dolce & Gabbana, con una sorta di curatela del meglio del duo siculo-milanese, molto apprezzata dagli addetti ai lavori).
Ma tornando al presente, il ruolo di Anna Wintour ha avuto inizio nel 1995 ( il tema era generico, Haute Couture, i co-chairs onorari erano Karl Lagerfeld e Gianni Versace, a sponsorizzare l’evento furono Chanel e Versace). La sua potenza è stata quella di capitalizzare, in ogni senso: l’evento è riuscito a raccogliere 9 milioni nel 2013, 12 nel 2014 e la cifra record di 17,4 milioni nel 2022, tutte somme devolute al museo che così riesce ad autofinanziarsi senza gravare sulle spese comunali. Un aumento di capitale volto anche all’aumento del prezzo del biglietto (sempre l’informatissimo Page Six sostiene che per l’edizione 2023 i costi sono ulteriormente saliti e il ticket per partecipare è arrivato a costare 50 mila euro, portando molti vip a trovare scuse per disertare, come di fronte alla riunione del liceo che non si ha voglia di affrontare).
Non c’è il rischio di incontrare Donald e Melania Trump, sulla black list della Wintour da ben prima che il magnate dai capelli arancioni si candidasse alla Casa Bianca, mentre potrebbe esserci Brittney Gritner, la star americana del baseball che è stata liberata dopo alcuni mesi dalla detenzione in Russia, dove era stata accusata di possesso di droga. L’ospite più atteso però cammina a 4 zampe: si tratta di Choupette, il gatto di proprietà di Karl, arrivata all’età di 11 anni, e scattata in molteplici campagne di Fendi, Chanel e Balmain, che sarà presente all’evento forse insieme alla sua “badante”, l’ex governante di casa di Monsieur Lagerfeld, Françoise Caçote, impiego per il quale ha ricevuto 4 milioni di dollari provenienti dall’eredità dello stilista ( i misteri si infittiscono quando si sussurra che sia l’unica ad aver ricevuto quanto le spettava, visto che le volontà testamentarie volte a ridistribuire l’immenso patrimonio di Lagerfeld, scomparso nel 2019 non risultano ancora eseguite dal legale).
Polemiche, scivoloni e ambiguità
Non solo successi e plebisciti bulgari: se nei suoi anni di direzione dell’evento, Wintour ha deciso di spostare la data al primo lunedì di maggio (mentre in passato si organizzava intorno alla fine di novembre) ci sono stati anche degli scivoloni, di natura culturale e personale. Nel 2015, ad esempio l’evento è stato rinominato: da Chinese whispers; tales of the east in art film, and fashion in China: through the looking glass, perché – sostenevano i detrattori – era un sottile reminiscenza del razzismo istituzionalizzato verso l’Asia, rafforzato dagli stereotipi occidentali ed esacerbato dall’ignoranza dei social media”.
Ecco, senza essere così tranchant, basta dire che, pur non essendo nei suoi intenti offensivo, quel titolo era problematico e semplicistico, così come lo era il cappello indossato per quell’edizione da Sarah Jessica Parker, che ricordava, senza avere intenti malevoli, se ne è certi, lo stereotipo delle “Dragon Ladies”, che immagina la donna asiatica come una misteriosa dominatrix ovviamente sessualizzata. Uno stereotipo che nasce con la prima attrice cinese che trovò fortuna ad Hollywood, Anna May Wong, e che i produttori e registi immaginavano costantemente in questa maniera mono-dimensionale.
Più sottilmente indicativo dello strapotere della Wintour fu il “caso” Azzedine Alaia. Per l’edizione 2009, il tema era “Model as a Muse: Embodying Fashion”, con una mostra dedicata al ruolo fondamentale avuto da certe modelle nel portare in vita le creazioni degli stilisti più famosi. C’erano pezzi che arrivavano da Balenciaga, Pierre Cardin, Saint Laurent e Gianni Versace, insieme a fotografie di alcune delle modelle che sono assurte, negli anni, al ruolo di muse: Cristhy Turlington, Kate Moss, Naomi, Twiggy, Iman, solo per citarne alcune.
Dalla mostra mancava però qualunque riferimento ad Azzedine Alaia, il designer tunisino che ha re-immaginato il corpo femminile negli anni 80, in controtendenza rispetto agli sperimentalismi bombastici di Thierry Mugler e Claude Montana, senza il cui apporto la storia della moda sarebbe diversa. Giustamente ferito dalla dimenticanza, troppo palese per essere solo il frutto di un eccesso di superficialità, Alaia chiese a due delle modelle che dovevano indossare sue creazioni al Gala, di preferire altri abiti ai suoi. Naomi e Stephanie Seymour, di conseguenza, preferirono non presentarsi del tutto all’evento, mandando una disdetta all’ultimo minuto. Alaia, che verso la Wintour non ha mai provato il timore reverenziale e la devozione acritica che accomuna invece molti altri stilisti, commentò stizzito che “la direttrice di Vogue ha troppo potere su questo museo”.
Parlando di scivoloni più recenti, il tema Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic imagination del 2018 si prestava già dal concepimento a irritare gli animi più pii e devoti. E infatti Rihanna, presentatasi in un look da papessa, fu definita blasfema, un “cosplay sacrilego” dei paramenti sacri. Per una volta la chiesa cattolica si dimostrò molto più dotata di capacità di discernimento tra immedesimazione nel tema e affronto religioso, anche perché tra gli invitati all’evento figurava il cardinale Timoty Dolan, arcivescovo di New York. Una presenza che non deve stupire, considerato che per l’occasione il Vaticano aveva prestato al Met più di quaranta abiti papali.
L’Oscar dell’East Coast
Critiche a parte, l’evento è ormai divenuto “l’Oscar dell’East Coast”, o, secondo il pubblicista Paul Wilmot, “l’ATM del Met”, dove per ATM si intende lo sportello bancario per i prelievi. Anna Wintour lo ha tramutato in un evento Vogue-centrico, che mostra al mondo non attraverso le pagine del magazine, ma grazie ad un evento ormai diffuso in streaming su ogni canale, la visione del giornale.
E poco importa se l’unica cosa che ai comuni mortali è concesso di vedere è la sfilata sul red carpet delle star che arrivano per l’aperitivo. La cena e tutto ciò che succede all’interno del Met è coperto da una policy che vieta i selfie o le riprese, per rendere l’evento ancora più misterioso, e di conseguenza, materia di speculazione e gossip che tinge d’inchiostro le pagine del web i giorni precedenti e quelli successivi.
Nel frattempo, si rimpinguano silenziosamente le casse del Met, sulle cui scale passavano pomeriggi interi Serena e Blair, le Gossip Girl per eccellenza che da quegli scalini giudicavano il mondo secondo i loro standard eurocentrici ed elitisti, e si crea una narrazione mitologica della moda americana, anzi no, della moda americana secondo Vogue. Se non è una geniale trovata di marketing questa, non sappiamo come altro definirla.