Bianca, rossa, bufala, marinara. Siamo abituati a considerare la pizza in molti modi: l’elemento cardine della nostra alimentazione, il fiore all’occhiello della tradizione nostrana, uno sfizio irrinunciabile, il pasto che mette per antonomasia d’accordo tutti e che quindi va bene sempre, anche se preparata dall’egiziano sotto casa: la si chiama e si aspetta. Invece, anche in merito alla pizza, è in corso un dibattito annoso. Cosa si intende oggi per pizza, quali sono i tipi e le modalità di preparazione? E soprattutto, in che modo i ristoratori e gli imprenditori sono tenuti a interpretare il mondo in transizione che la accoglie?
Non si tratta di un tema ozioso: tra l’inflazione crescente, le materie prime al rialzo e un costo della vita sempre più aereo e lunare rispetto agli stipendi o al potere d’acquisto medio dei cittadini, anche andare a mangiare la classica pizza non è più così semplice, elementare e ovvio. Sedersi in una buona pizzeria è certamente più economico rispetto che in qualunque altro ristorante, ma è anche vero che dieci anni fa era possibile cavarsela con dieci, dodici euro a testa, oggi si arriva facilmente a trenta – aggiungendo coperto e bevande.
Occorre dunque riportare la pizza ai suoi albori di elemento primo, dunque accessibile, o accettarne il decorso a bene di lusso? Secondo Davide Orlando, responsabile produzione del panificio Longoni, nella bottega del Mercato Centrale, la ricerca di qualità conduce all’assunto secondo il quale si può, anzi, si deve renderla adatta a un mercato ambizioso, adatta alle tasche degli intenditori.
«No, non è solo una pizza», dichiara. «Perché un hamburger viene ormai fatto pagare venticinque euro e lo stesso non può accadere per la pizza?».«Perché l’hamburger prevede la carne», obietta Lorenzo Dal Bo, chef e proprietario di un ristorante da lui fondato, il Brenso di Zurigo, dopo avere lavorato al celebre Noma di Copenaghen e da Vittorio a Brusaporto. «Ma il punto è proprio questo! Un cliente non ha idea di ciò che c’è dietro a quel che sembra pane, acqua e passata di pomodoro», ribatte Orlando.
Ecco, dunque: informare i clienti, ignari del lavoro di selezione, cura e fatica che i ristoratori strenuamente e quotidianamente sostengono è essenziale affinché siano poi disposti anche a spendere di più. «Non c’è nulla di male nel rivolgersi ad avventori benestanti, che magari non sono avvezzi a frequentare ristoranti tutte le sere, ma quando lo fanno sono desiderosi di trascorrere un’esperienza di un certo livello». Superare la borghesia per dedicarsi a un’aristocrazia esigente e formata. Questo sembra essere il desiderio di coloro che la pizza la fanno e sono perciò stufi di un mercato del lavoro impietoso, che prevede doppi e tripli turni, a mezzogiorno come a cena, e il rispetto di un’informale elasticità, ciò che le pizzerie solitamente prevedono all’interno della storica mentalità di tutti.
Perché il punto è anche (e soprattutto) questo: il lavoro attraversa una fase di transizione in tutte le sue fasce, in tutti i suoi settori e in tutti i suoi comparti. Non sono dunque solo i camerieri irreperibili e introvabili, perché, come sottolinea l’imprenditrice Ilaria Puddu, «Non hanno più voglia di fare questo mestiere e come biasimarli», ma sono anche i ristoratori stessi a esprimere un’intolleranza nei confronti di una catena di montaggio incessante.
Ricordano che a Napoli, fuori dalle storiche pizzerie come da Michele, si crea la fila, la coda di persone in attesa di un tavolo, che occupano circa un’ora e poi lo liberano, costringendo il personale a ritmi che perdurano tutto il giorno, mattine e pomeriggi inclusi. Ecco perché Davide Samarani di Masa Experience prevede un tipo di accoglienza completamente diverso: le porte aprono alle diciannove e trenta e chi arriva si accaparra il tavolo fino alla chiusura. I clienti si dimostrano sorpresi: «Ma se arriviamo così presto, a che ora dovremo andarcene?». Davide li rassicura: dopo di loro, non è previsto nessuno. Non solo: a tutti offre un cocktail di benvenuto. L’ospitalità, la lentezza, la diluizione di quello che anticamente è concepito come il tempo della convivialità conferisce respiro a tutti coloro che la rendono possibile, compreso il personale.
E se alla cassa il prezzo è maggiorato, interviene Davide Orlando, occorre fare chiarezza. Informare i clienti, abituarli al dialogo con chi sta in cucina. È importante spiegare loro che cosa si paga, e perché: trattare direttamente con piccoli fornitori e non con la grande produzione implica automaticamente spendere di più per assicurarsi le materie prime, e se è così ciascuno di noi deve concorrere affinché questo sistema resti in piedi e non si smarrisca nel dedalo delle catene industrializzate e massificate. La disinformazione è il vero male del settore gastronomico, conferma l’imprenditore Carmine Tremiglio.
Del resto, si tratta di un criterio che ben si sposa anche con le esigenze dell’ambiente. «Una filiera produttiva controllata consente un rapporto diretto con i contadini», spiega Davide Orlando. Dunque, se qualcosa non c’è perché finisce o semplicemente perché la terra non l’ha offerta – e le ragioni sono molteplici, a cominciare dagli episodi virulenti a cui abbiamo assistito solo nelle ultime settimane – il cliente non può trovarla sul menu. E qui si ritorna alle esigenze di dialogo, di spiegazione, di mutua e concorde collaborazione.
Abituare, forzare a un’attenzione alimentare passa anche e soprattutto dal ristorante, dove perfino chi tra noi è più sensibile alla sostenibilità degli acquisti al supermercato, quando esce a cena non lesina impazienza se certi prodotti non sono reperibili, foss’anche perché non più di stagione – un’apparente controintuizione nelle metropoli globalizzate dove abitiamo. Andrea Rundo di Petra sostiene che cambiare la mentalità di tutti è possibile, e conviene. «Abbiamo perso il rapporto con la terra. Si sta tornando indietro, al valore, al sapore stesso del grano. La nostra farina del progetto “Evolutiva” ha più di duecento grani all’interno, è biologica, non ha bisogno di trattamenti. La maciniamo e la offriamo direttamente al cliente. È un lavoro di ricerca e sosteniamo così anche chi coltiva».
Ciò che viene naturale domandarsi è se esiste qualcuno che nutre il desiderio, le capacità economiche e la volontà di pagare un sovrapprezzo, nonostante questo renda poi più sano e trasparente un processo alimentare che molti di noi interpretano ancora, a torto o a ragione, una questione di mera sopravvivenza fisica. Sottolinea Ilaria Puddu, che tra le altre cose enumera sotto di sé cinquantacinque pizzerie, tra cui Pizzium, Giolina, Marghe, Crocca: «La grande massa della clientela preferisce che la pizza sia buona e spendere il giusto. Educarli, richiedendo questo tipo di sforzo, di attività, di competenza ai camerieri e cioè alla forza lavoro, è impossibile».
Questo tipo di realismo si accompagna a una realtà ostinata a restare statica, reticente al mutare delle abitudini. Se però andare al ristorante diventasse un’attività di pregio, durante la quale al cibo viene attribuito il giusto valore e il tempo adeguato a degustarlo, si concepirebbe un’inedita idea di socialità, che per giunta allenterebbe le tensioni tra coltivatori, produttori, titolari e persone comuni. Ovvero: non è mai solo cibo. Che è un altro modo per dire che i lavoratori non sono mai semplici lavoratori. Rispettarne il tessuto, le battute d’arresto e il riposo sarà il solo modo di non stremare le risorse di un pianeta già in decadenza.
Tenendoci stretto qualche innocuo, innocente retaggio, simile a quello sollevato da Laurel Evans, blogger originaria del Texas e docente di cucina: «Le pizzerie consentono delle vere e proprie ribellioni, le uscite dagli schemi. Come ordinare un gin tonic in mezzo agli antipasti».