La questione di come si forma – e come si scelga – un Ceo (Chief Executive Officer) è stata ampiamente studiata – e dibattuta – e nonostante tutto rimane ancora oggi non facilmente definibile. Per esempio, continuano a variare – e di molto – anche i contesti economico-sociali (avanzamento tecnologico, digitalizzazione, ESG…) che amplificano e aggiornano i perimetri e le skills della leadership. Marvin Bower, Ceo di McKinsey dal 1950 al 1967 (figura chiave in McKinsey fino al 1992), autore tra gli altri del libro “The will to lead” (Harvard Business School Press, 1997) considerava il lavoro dell’amministratore delegato così unico che riteneva che i dirigenti potessero prepararsi per l’incarico solo eseguendolo.
Dalla mia esperienza concordo con Marvin Bower. Abbiamo osservato una crescente scelta verso i Cfo (Chief Financial Officer) come potenziali Ceo sia come conseguenza del processo di finanziarizzazione che ha contraddistinto negli ultimi anni il business mainstream legato allo stress sui dividendi (short-termism) rispetto alla crescita di medio lungo periodo, sia al fatto che i Cfo per loro natura entravano di frequente in contatto con il Board e i principali azionisti. Durante la prima metà del 2022, circa l’8,1 per cento dei 681 Cfo tra le società Fortune 500 e S&P 500 sono stati promossi al ruolo di Ceo, un massimo storico, secondo il rapporto sulla volatilità della società di ricerca esecutiva Crist Kolder Associates. Un decennio fa, la promozione era toccata solo al 5,6 per cento.
Gli azionisti ritenevano (e ancora ritengono) che i Cfo conoscano bene il business sottostante, senza troppo considerare le altre competenze trasversali che un Ceo deve avere. Conoscere la finanza dentro e fuori è una condizione potremmo dire necessaria ma non più sufficiente (Deloitte Insight 2016). Altre ricerche indicano però che la migliore scelta sta normalmente fuori dalla azienda per sfruttare il potenziale dell’osservatore esterno, meno condizionato dagli usi e costumi della casa e portatore sano di pensiero nuovo. Interessante la recente Survey congiunta Fortune-Deloitte che mostra come solo il 54 per cento circa dei Ceo ritenga che vi siano all’interno dell’azienda reali prospettive di potenziali nuovi candidati Ceo.
La questione comunque è che non esiste una regola assoluta e non esiste nessuna evidenza empirica (Stanford Business School – 2016): dipende dalla situazione e dal settore in cui si trova l’azienda. La crescente e impattante velocità dell’avanzamento tecnologico e la necessità (una volta era un’opportunità) di valorizzare ogni spinta culturale e creativa che ogni individuo all’interno di una azienda potenzialmente può produrre mi portano a fare alcune, credo fondamentali, considerazioni.
In ogni caso il leader deve avere una bussola: deve scegliere e indicare una direzione (la vision). Il leader deve alimentare una cultura aziendale che si fonda sull’apprendimento collettivo e sulla partecipazione; deve saper attivare e stimolare all’interno dei suoi team il pensiero laterale o pensiero creativo (famosa la tecnica dei sei cappelli di Edward de Bono, premio Nobel per l’Economia nel 2005, guru assoluto del pensiero laterale) così facendo i team e i loro capi sapranno disegnare la mappa e la sapranno opportunamente aggiornare man mano.
Servono abilità sociali e adeguati comportamenti sociali. Jeffrey Pfeffer, professore di Organizational Behavior presso la Stanford Graduate School of Business, uno dei più influenti pensatori contemporanei nel campo del management, nel suo libro “Leadership BS”, parla della leadership mettendo in risalto le necessarie capacità sociali dei leader demolendo alcuni miti della leadership vecchio stampo. Scrive: «Le raccomandazioni ispiratrici nella letteratura popolare sulla leadership sono in generale fasulle, perché non tengono conto della realtà alla base della ricerca sulle scienze sociali, del comportamento umano e di ciò che accade davvero nelle funzioni quotidiane di un Ceo».
In generale e in particolare negli Stati Uniti, la fiducia nei C-level è bassa e in costante declino, secondo il Trust Barometer di Edelman (interessante il caso Italia che si muove in direzione opposta). Inoltre, come sostiene nel suo ultimo libro, “Dying for a Paycheck” (2018), molti luoghi di lavoro sono davvero tossici e i manager devono fare i conti con una forza-lavoro stressata. In aggiunta, come mostrano costantemente i sondaggi Gallup, l’ottantacinque per cento dei dipendenti è disinteressato o fortemente disinteressato al lavoro, il che significa che solo il quindici per cento è interessato al proprio lavoro.
Serve attenzione sociale (human sustainability) ma soprattutto intelligenza sociale. Le forti competenze sociali diventano addirittura indispensabili nelle aziende ad alta intensità tecnologica, dove l’automazione e digitalizzazione è diffusa, la forza lavoro risulta eterogenea da svariati punti di vista (etnia, religione, differenze generazionali, etc.), più frequenti gli eventi imprevisti da gestire e conflitti nel processo decisionale da sanare: tutte operazioni che vengono svolte al meglio da manager con forti competenze sociali.
Nel luglio-agosto scorso sulla prestigiosa Harvard Business Review è stato pubblicato uno studio condotto da ricercatori della stessa Harvard Business School (R.Sadun-Joseph Fuller), S. Hansen (Imperial College Business Scxhool) e PJ Neal (Global Head of Knowledge and Operations di Russel Reynolds) che indagando il poderoso data base di Russel Reynolds (oltre 5.000 job description) hanno potuto verificare uno spostamento delle competenze dei Ceo (e altri C-level) verso le componenti sociali: «Quando ci riferiamo ad abilità sociali, intendiamo alcune capacità specifiche, tra cui un alto livello di autoconsapevolezza, la capacità di ascoltare e comunicare bene, una facilità per lavorare con diversi tipi di persone e gruppi, e ciò che gli psicologi chiamano teoria della mente: la capacità di dedurre come gli altri pensano e sentono. L’entità del passaggio negli ultimi anni verso queste capacità è più significativa per i CEO, ma anche pronunciata per gli altri quattro ruoli di C-suite che abbiamo studiato».
Competenze sociali che si rendono necessarie anche in altri ambiti e ruoli aziendali per cui è necessario dotarsi di nuovi strumenti di valutazione delle risorse umane: «Companies will need to create new tools if they are to establish an objective basis for evaluating and comparing people’s social skills» (Le aziende dovranno creare nuovi strumenti se vogliono stabilire una base oggettiva per valutare e confrontare le abilità sociali delle persone).
Ho già richiamato in un precedente articolo quanto Jack Ma, fondatore di Alibaba, nel dicembre 2019 partecipando come ospite a una conferenza promossa dall’ Oecd (Organisation for Economic Co-operation and Development) disse sui percorsi formativi legati al mondo del lavoro (lui stesso fu respinto dall’Università di Harvard per ben undici volte!). Serve la formula “EQ + IQ + LQ”, ossia Emotional quotient + intellective quotient + love quotient, perché: «Se vuoi avere successo, dovresti avere un EQ (quoziente emotivo) molto alto, in modo di andare d’accordo con le persone; se non vuoi perdere velocemente, dovresti avere un buon QI (quoziente intellettivo); ma se vuoi essere rispettato, dovresti avere LQ – il quoziente d’amore, perché il cervello sarà sostituito dalle macchine, ma le macchine non potranno mai sostituire il tuo cuore». Bussola, amore per le persone e pensiero creativo.
Nell’articolo che ho pubblicato su questa rivista nell’aprile 2018 ripresi la metafora azienda-orchestra trattata ampiamente da Peter Drucker, proponendo – più allineata ai nostri tempi – una metafora diversa tra azienda e “orchestra” Jazz. «Ogni componente deve essere in grado di: suonare assieme al resto dell’orchestra; esibirsi in un assolo; supportare gli assolo degli altri musicisti. E il leader deve scegliere la musica, trovare i musicisti più adatti e cimentarsi con loro davanti al pubblico. Nell’esecuzione jazzistica si delinea un processo di co-creazione tale per cui ciascun musicista può sia creare individualmente che assorbire le idee degli altri, riprendendone idee, spunti di direzione, trasformando continuamente le possibilità espressive in creazioni sonore imprevedibili. Pur nei limiti riconosciuti all’operare per metafore è importante riconoscere che il sapere lavorare sull’emergente può costituire per le organizzazioni capaci di raccogliere la sfida, una possibilità di creare maggiore stabilità in condizioni ambientali di elevata complessità e instabilità. Per i leader, e non solo, si tratta di sviluppare una capacità di apprendimento e creatività insieme alla sua organizzazione».
Ciò che li unisce è l’amore per la musica, la continua creazione di espressione e valore musicale e il leader è il soggetto che li guida senza guidarli.