Quando Adriano Sofri nel 2015 venne invitato a una riunione degli stati generali dell’esecuzione penale, Maurizio Gasparri accusò Andrea Orlando di avere nominato un assassino consulente ministeriale. Alcuni anni prima, lo stesso Gasparri aveva accusato il governo Prodi di «riciclare i terroristi» per avere inserito Susanna Ronconi, con un passato in Prima Linea e un presente e futuro da dirigente del Gruppo Abele e di Forum Droghe, in una consulta di operatori sulle tossicodipendenze del ministero degli Affari Sociali. Nello stesso periodo altri parlamentari della destra presentavano allarmatissime interrogazioni in cui, enumerando incarichi e affidamenti, gratuiti e retribuiti, a ex terroristi rossi, intimavano al Governo di assumere «iniziative, anche normative… per evitare che a terroristi ed a condannati per gravissimi reati vengano affidati, in futuro, incarichi presso ministeri ed enti locali».
A parti inverse, la cronaca politica antica e recente ha proposto casi identici e semplicemente rovesciati, in cui a denunciare la vergogna della nobilitazione pubblica degli avanzi dell’eversione fascista e a trarre conclusioni circa la mancata recisione del cordone ombelicale con il Ventennio sono stati politici di sinistra: a volte i medesimi politici che da destra erano indiziati di inconfessata intelligenza con la sinistra post-brigatista.
Il caso più grottesco – riguardando una persona che ha fama, evidentemente immeritata, di misura e di cultura giuridica non propriamente gasparriana – è quello di Andrea Orlando, che, forte dell’appello di molti familiari di vittime dell’eversione di destra, ha denunciato «con sgomento» il tradimento di Falcone per l’elezione alla presidenza della Commissione Antimafia di Chiara Colosimo, macchiata da una antica collaborazione con una associazione di ex detenuti guidata dall’ex Nar Luigi Ciavardini.
Sulla stessa linea il PD della Capitale aveva lanciato una petizione su Chance.org per la rimozione di Marcello De Angelis, ex militante di Terza Posizione, da responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, in ragione di una condanna per associazione sovversiva finita di scontare oltre trent’anni fa.
A corredo di questo prevedibilissimo rimpiattino politico tra destra e sinistra sugli scheletri eversivi stipati negli armadi della parte avversa c’è poi sempre, puntualissimo, quello della pubblicistica di area, che in queste occasioni eccelle per puntiglio conformistico e per fedeltà (anche a destra) trinariciute.
In questo caso è perfino inutile fare nomi, perché comprende quasi tutte le firme che contano dell’informazione (con rispetto parlando) di destra e di sinistra. Il “quasi” è rappresentato da quanti non si schierano, ma in genere non si dissociano da questo gioco, che non è bello, e quindi non dura poco, ma sembra destinato a trascinarsi in eterno o almeno fino a quando – per consunzione logica degli argomenti o per estinzione anagrafica delle memorie personali – le retoriche contrapposte di destra e sinistra continueranno a radicarsi nella tossica etnicità degli scontri di piazza degli anni ’70.
Ovviamente il non plus ultra della cattiva coscienza sulla violenza degli altri è stato raggiunto sul caso più scandaloso, quello di Valerio Fioravanti, accusato di lordare con il suo nero passato le pagine del giornale fondato da Antonio Gramsci, su cui però, come ha ricordato Piero Sansonetti, Fioravanti aveva già scritto parecchi anni fa, quando a dirigere l’Unità era Valter Veltroni. A quanto pare – aggiungo io – la benevola accoglienza riservata al condannato per la strage di Bologna serviva allora a esibire la superiorità morale della sinistra, mentre oggi la repulsione per i suoi articoli serve a ribadire il concetto della minorità morale della destra, nel momento in cui proprio quella post-fascista è diventata maggioranza politica.
La cosa storicamente più interessante in questo festival della malafede non è registrare la sostanziale identità dell’atteggiamento della destra e della sinistra. È comprendere quanto questa intransigenza a geometria variabile serva a negare o a rimuovere la compromissione del proprio campo con il culto della violenza necessaria, da cui da entrambe le parti è stata nutrita la reciproca ostilità e di cui, sia a destra che a sinistra, le deviazioni eversivo-terroristiche sono state manifestazioni non programmate e anche violentemente avversate (la politica della fermezza imposta dal Partito comunista italiano, la pena di morte per i terroristi richiesta dal Movimento sociale italiano), ma tutt’altro che estranee ai rispettivi album di famiglia. La violenza fascista come alibi di quella comunista, e viceversa.
L’avevano capito e scandalosamente dichiarato nel pieno degli anni di piombo i radicali, che prima denunciarono nelle leggi d’eccezione anti-terroriste un modo per esorcizzare il fantasma imbarazzante di questa parentela e in seguito furono, per usare un gergo gasparriano, dei formidabili “riciclatori” di ex terroristi, come dimostra l’esperienza di Nessuno Tocchi Caino, nata esattamente trent’anni fa: prima affidata deliberatamente da Marco Pannella alle cure di un ex terrorista di Prima Linea, Sergio D’Elia – che sarebbe poi sbarcato anche in Parlamento con la Rosa nel Pugno, attaccato da destra e difeso, ca va sans dire, da sinistra – e quindi integrata con le figure di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, a cui la stessa sinistra che difendeva il diritto di D’Elia di sedere in Parlamento non riconosce oggi il diritto di scrivere su l’Unità.