Benché gli episodi di iconoclastia di massa, negli Stati Uniti di questo inizio di millennio, siano stati relativamente pochi la loro eco nazionale e internazionale è stata grande, rimbalzando nell’echo chamber massmediatica della cancel culture e in quella più ampia delle cosiddette culture wars. I monumenti davvero cancellati, in un modo o nell’altro, sono stati intorno ai trecento, lo 0,6% dei 50.000 and counting che punteggiano il paese. E tuttavia lo scandalo c’è stato, fermamente cercato dagli attori in scena, essendo questo l’ovvio scopo dello spettacolo, uno scopo serissimo.
Perché tale è il destino dei monumenti, almeno in paesi abbastanza liberal-democratici come gli Stati Uniti, dove lo spazio pubblico è spazio conteso non del tutto pacificato e non del tutto disciplinato da autorità sovraordinate permanenti e indiscutibili. I monumenti sembrano nascere in gloria e poi sopravvivere a lungo per inerzia, magari inerzia affettuosa, talvolta ostile in maniera selettiva e silenziosa, infine indifferente, e il loro significato finisce per essere attutito o dimenticato con il passare del tempo e delle generazioni.
Entrano così a far parte del paesaggio, come se fossero lì da sempre, con una funzione puramente decorativa; sono, ha scritto la classicista Mary Beard, una «costosa carta da parati» della vita quotidiana. Solo ad alcuni fra loro è riservata la possibilità di riacquistare in età avanzata una qualche vitalità. Nel film Night at the Museum (2006) ritornano letteralmente vivi, con Robin Williams nella parte di un vivace Teddy Roosevelt di cera e Pierfrancesco Favino di un Cristoforo Colombo in bronzo dorato. Nella realtà non hollywoodiana ritornano solo di attualità, anche di scottante attualità quando è il caso, oggetto di litigi fra cittadini litigiosi.
Insomma, capita a tutti ciò di cui parlava lo scrittore austriaco Robert Musil negli anni Venti del Novecento, e cioè produrre abitudine allo sguardo, sfuggire all’attenzione: «La cosa più strana nei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile». Capita invece agli happy few di essere «una spina di pesce [conficcata] in gola alla città», come scrisse negli anni Sessanta il poeta americano Robert Lowell parlando di monumenti di casa sua, a Boston: simboli sacri per alcuni ma vista insopportabile per altri, intorno a questioni che si credevano appartenere al passato e che invece sono ancora ben presenti, in modi diversi per motivi diversi per soggetti diversi.
Un passato che non è morto, anzi che non è neanche passato, per parafrasare William Faulkner. Sono i fastidi della storia che tirano la giacca ai viventi, in maniera chiassosa. La storia è sempre stata fastidiosa, e solo in apparenza in maniere più quiete, più gentili. I monumenti che ci sono consegnati dal passato non sono «né innocenti né neutrali»; sono oggetti controversi anche quando sono concepiti e non solo se e quando, in tempi successivi, vengano analizzati da critici culturali o contestati da attivisti politici.
Sono performance presentiste, fanno finta di riguardare il passato ma parlano sempre del presente e al presente: il presente di quando entrano in scena e il presente di ogni volta in cui agganciano l’attenzione di qualcuno. Fanno finta di commemorare ma celebrano, e celebrando interpretano; evidenziano alcune cose, dando loro autorevolezza, e ne celano altre. È ironico che chi ce l’abbia su con alcuni di essi sia accusato di voler riscrivere o cancellare la storia; i monumenti stessi sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva, farli e disfarli sono due facce della stessa medaglia, due manifestazioni opposte e simmetriche dello stesso discorso pubblico, politico, civile, su che cosa sia opportuno ricordare e che cosa no.
Le vicende delle loro origini sono altrettanto dense di disaccordi, e spesso più rivelatrici di ciò che si agita nel ventre della storia, degli atti di iconoclastia. Con le dovute eccezioni, e ci sono eccezioni, i monumenti rispecchiano i punti di vista prevalenti nei gruppi d’élite che li erigono nel momento e nel luogo in cui sono eretti, e tendono a dare loro la solidità di narrazioni storiche fattuali e indiscutibili, memorie di un passato da ricordare per sempre in quella forma, memorie scritte nella pietra, appunto.
E tuttavia, nella società conflittuale degli Stati Uniti, la loro costruzione ha generato discussioni, ha eccitato passioni contrastanti, passioni ben note agli storici, forse meno agli osservatori più distanti, non sempre documentatissime e quindi talvolta impalpabili se non dimenticate, ma reali. Guardando indietro, in ogni periodo storico è difficile trovare un unico «spirito del tempo», un’unica «comune sensibilità» a cui attribuire la inevitabilità di certe scelte monumentali, le scelte delle persone o delle cause da rappresentare e dei modi in cui rappresentarle.
C’era piuttosto una gamma di possibilità consapevoli e meditate, proposte oppure osteggiate dai contemporanei, parte di una contesa. Per ogni nuovo monumento, c’era chi lo disapprovava o aveva in mente soluzioni diverse; e lo pensava, com’è ovvio, secondo le convinzioni, i valori, i criteri di allora, nel contesto di dibattiti spesso accesi. Magari era in una posizione minoritaria e alla fine perdente ma aveva le parole per dire e motivare la disapprovazione. Quelle parole esistevano già, e sono storicamente illuminanti. Non sono un’invenzione anacronistica del presente.
Gli Stati Uniti sono nati con la madre di tutte le dissacrazioni monumentali, l’abbattimento della statua equestre del re britannico Giorgio III a Manhattan, il 9 luglio dell’anno fatidico 1776, cinque giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione di indipendenza. Questo atto di iconoclastia antiautoritaria è diventato un’origin story del patriottismo nazionale; chi lo ripete, in contesti certo meno impegnativi, può ben pensare di mettere in scena la sacra imitazione di un atto fondante della repubblica, nello spirito repubblicano delle origini. Non che sia successo spesso, tutt’altro. Da allora e fino a oggi l’attività di gran lunga principale degli americani è stata costruire monumenti, non demolirli. Persino gli iconoclasti, in effetti, non vogliono altro che erigere nuove icone.
Da “I fastidi della storia” di Arnaldo Testi, Il Mulino, 272 pagine, 20 euro.