Fratelli d’Almirante Il percorso carsico che ha portato la fiamma al potere, con l’armamentario missino

Il partito di Meloni alterna ancora gli accenti tribunizi al bon ton istituzionale, ma per un vero cambio di pelle serve la revisione delle sue convinzioni. Una nuova edizione del saggio di Ignazi analizza i trent’anni in cui la destra neofascista è passata dall’irrilevanza al potere, a colpi di svolte ideologiche

Giorgia Meloni alla convention per il decennale di FDI
LaPresse / Roberto Monaldo

Con l’ingresso di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi dopo le elezioni del 25 settembre 2022 la fiamma, recuperata da un cenacolo di reduci nell’immediato dopoguerra, entra trionfalmente nelle stanze del potere politico. Il percorso ha avuto un andamento sussultorio e carsico.

Poco dopo la sua nascita semiclandestina, il MSI diviene il referente non solo dei reduci ex-fascisti ma anche di quell’area grigia di italiani che avevano convissuto con il fascismo pur senza esserne particolarmente attratti. Negli anni cinquanta, insieme ai monarchici e a spezzoni di notabilato meridionale moderato, il MSI ottiene risultati elettorali a due cifre in molte città del sud accedendo anche al governo di alcuni centri importanti.

Il successo è tale da prefigurare, con la cosiddetta «operazione Sturzo», la partecipazione a una lista comune con la DC per le comunali di Roma del 1952. In questo decennio il partito si offre alla Democrazia Cristiana come un rinforzo anti-comunista, per frenare ogni deriva a sinistra. La «strategia dell’inserimento nel sistema» prosegue tranquilla verso quello che appare il suo compimento: il sostegno decisivo e indispensabile alla nascita di un governo monocolore democristiano, che alla fine si realizza nell’estate del 1960, con l’esecutivo Tambroni.

La reazione all’interno della DC, i passi falsi del partito e la mobilitazione della sinistra convergono per far fallire rovinosamente l’operazione e cacciano il MSI nel ghetto dell’opposizione anti-sistema. Senza più sponde, sospinto in angolo, il partito ristagna e declina. […]

L’effervescenza sociale e la mobilitazione politica del Sessantotto, e il ricambio nella leadership con il ritorno alla guida del più battagliero Giorgio Almirante nel 1969, offrono una chance di ripresa al partito. Che infatti si concretizza nell’«onda nera» delle amministrative parziali del 1971, dove il MSI rinverdisce i fasti di vent’anni prima nel Mezzogiorno, e nel voto al nuovo presidente della Repubblica Giovanni Leone nel dicembre di quell’anno.

Il nuovo vestito adottato dal partito con la trasformazione in Destra Nazionale contribuisce a fornirgli un’immagine meno cupa e reducistica, funzionale all’acquisizione di nuove constituencies elettorali che infatti lo portano, nel 1972, al tetto dei suoi consensi, 8,7%. Ma anche questa fiammata si esaurisce presto tra connivenze, volute e subite, con servizi segreti, gruppi eversivi e terroristi, e pulsioni golpiste. […] Di nuovo si stringe intorno al MSI un cordone sanitario inscalfibile.

Il rientro del giovane Fini, già approdato alla segreteria come delfino di Almirante nel 1987, riporta il partito sui suoi binari tradizionali consentendogli una navigazione tranquilla ma senza la prospettiva di un futuro radioso. Anzi. Solo lo sconvolgimento del sistema partitico prodotto da Tangentopoli lo strappa dall’isolamento e da un inevitabile declino.

Grazie alla mano tesa del nuovo protagonista della politica italiana post-1994, Silvio Berlusconi, si aprono praterie inimmaginabili. La rapida mutazione in Alleanza Nazionale del 1995, con qualche frettolosa abiura del passato nel Congresso di fondazione di Fiuggi, consente al partito di giocare un ruolo primario nella politica italiana, ed entrare ripetutamente al governo.

Dopo aver accarezzato più volte il sogno di conquistare la leadership del centro-destra, la vicenda di AN si chiude in due tempi. Prima con il suo scioglimento quando, nel 2009, confluisce insieme a Forza Italia nel contenitore comune del PDL; e poi con la fragorosa uscita di Gianfranco Fini, insieme a un manipolo di fedelissimi, appena un anno più tardi, nel 2010, dopo aver perso la sfida lanciata alla leadership berlusconiana.

Questo epilogo è conseguente a un distacco ideale e personale tra il leader e gran parte del partito. Mentre Fini proseguiva nel tentativo di trasformare AN in un partito conservatore di stampo europeo, la sua classe dirigente rimaneva sedotta e avvinta dal populismo perbenista e qualunquista di Berlusconi, tanto da obbligarlo alla confluenza nel PDL e da lasciarlo praticamente solo al momento dello scontro finale con il Cavaliere.

La fine catastrofica del gruppo finiano di Futuro e Libertà, sepolto sotto un ignominioso 0,5% alle elezioni del 2013, e il 2,0% raccolto dal trio Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Guido Crosetto, usciti a fine 2012 dal PDL per fondare una costola di destra, Fratelli d’Italia, sembrano seppellire definitivamente la vicenda del post-fascismo.

Invece, nell’arco di un decennio, con velocità progressivamente accelerata, tutto cambia. FDI viene trascinato dalla sua leader lungo una lenta rincorsa che prende slancio solo nel 2018, dopo l’ingresso del partito in Parlamento, e si trasforma poi in un’impetuosa cavalcata dopo la fuoriuscita della Lega dal governo giallo-verde nell’estate 2019.

Da quel momento Meloni esce dall’ombra massiccia del Salvini trionfante e, smarcandosi anche dal paternalismo berlusconiano, riesce a intercettare gli scontenti di centro-destra. FDI diventa l’interlocutore privilegiato di questa area enfatizzando le caratteristiche distintive della leadership, in particolare il côté giovane donna, sorridente quanto decisa.

I toni più estremi e radicali delle Tesi di Trieste, il corposo documento teorico elaborato nel Congresso del 2017, vengono larvatamente edulcorati, ma quando la polemica si accende viene messo in campo tutto l’armamentario sovranista-nazionalista, autoritario e securitario.

Pur senza rinnegare nulla dell’esperienza neofascista e velando appena con qualche limitata critica il regime mussoliniano, il sapiente alternarsi di accenti tribunizi e di bon ton istituzionale negli ultimi mesi del governo Draghi fornisce a Meloni il viatico per offrirsi all’opinione pubblica quale credibile alternativa e, allo stesso tempo, solerte esecutrice dell’agenda economica e internazionale del passato governo.

Ma quanto vi sia di strumentale e di congiunturale in questa linea accomodante di FDI e della sua leader lo attesterà il tempo. Certamente, un autentico cambiamento non può che comportare una revisione profonda, e inevitabilmente dolorosa, delle perduranti convinzioni del partito sulla validità della destra neofascista e dei suoi valori.

Da “Il polo escluso. La fiamma che non si spegne: da Almirante a Meloni” di Piero Ignazi, Il Mulino, 456 pagine, 19 euro.

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