Questo è il diario on the road di Caterina, giornalista di Chicago a caccia delle sue radici italiane. Una nuova serie podcast alla scoperta dell’Italia più autentica by Loro Piana & Linkiesta Eccetera, a cura di Giuliana Matarrese. Seconda tappa: nuotare, bere vino e ridere della vita a Portofino. Chiudete gli occhi e godetevi il viaggio.
“Quale storia vuoi raccontare oggi?”. Una domanda quotidiana per Caterina, che oggi, sembra avere un peso diverso. Piantata di fronte all’armadio della sua camera allo Splendido, ascolta il suono della vita che le arriva attutito, dalle finestre aperte. Non si sarebbe mai potuta permettere un hotel del genere, affacciato sul porto, a due passi dalla piazzetta, ma una camera rimasta vuota all’ultimo e l’offerta che lampeggiava, insistente, attraverso il suo servizio di alert, l’aveva convinta a cogliere l’occasione. I piedi nudi poggiano sui pavimenti in legno lucido, spostando il peso dolcemente da una parte all’altra del corpo, mossi da una melodia che ascolta ossessivamente tramite vecchi video su YouTube, da quando Libero le ha consegnato quella cartolina, una settimana fa, e aveva scoperto che quelle poche parole di sua madre facevano riferimento ad una canzone realmente esistente, scritta da Fred Buscaglione, e che però l’aveva sedotta nella versione cantata un po’ in italiano un po’ in francese, da Dalida. Le piace pensare che fosse proprio la stessa versione a cui aveva fatto riferimento sua madre. “I found my love in Portofino, perché nei sogni credo ancor, lo strano gioco del destino, a Portofino m’ha preso il cuor” canticchia anche lei, in un italiano reso sicuro dalla quantità di volte nelle quali ha ascoltato quel brano, nei giorni precedenti.
Nel frattempo, nell’armadio si ritrovano di fronte a lei maglie in cotone lavorate a mezza costa inglese, con uno scollo centrale chiuso da lacci dall’ispirazione Navy; abiti blu nautico a maniche corte in spugna di cotone e lino, blazer doppiopetto in lino e lana vergine, persino un anorak in lino e cotone in un giallo acceso, perfetto da indossare in barca o nel caso di pioggia. Pur nell’imprevedibilità della sua vita nelle ultime settimane, Caterina si sentiva di poter scongiurare l’eventualità della pioggia in quella giornata di giugno, e non sperava certo in un giro in barca nel golfo paradisiaco del Tigullio. Lo sguardo ricade su una tunica bianca in drill di cotone e lino con taschino e scollo a v, da abbinare ad un bermuda a vita alta che le arriva al ginocchio, color sabbia. I piedi si infilano naturalmente nei mocassini in suede blu Navy.
Mentre le note si spandono per la camera illuminata, le tornano alla mente le immagini del video, nel quale la cantante franco-italiana che canta la melodia, immortalata su piccoli motoscafi espone la pelle ambrata al sole, in un bikini floreale e maxi occhiali da diva anni sessanta: non avendo nessuna idea di come si svilupperà la giornata, è forse meglio premunirsi e dotarsi di un costume. Ne ha uno intero, blue navy, che lascia la schiena scoperta, con degli anelli a salvagente in metallo smaltato sulle spalline, che sicuramente a Dalida sarebbe piaciuto. Lo infila nel secchiello in pelle bianco latte, insieme al cellulare, a un foulard in seta stampato a righe, talmente ampio che, se le condizioni lo richiedono, può essere usato come pareo. In fondo alla borsa, quella cartolina, che l’aveva condotta in uno scenario nel quale non si sarebbe mai immaginata di ritrovarsi, e che le si staglia fuori dalla terrazza, dove si è appena concessa la colazione.
La sedia in ferro battuto è parzialmente nascosta dalla tovaglia in lino che scende fino a terra, sul tavolo i resti di un succo d’arancia, la scodella con lo yogurt, muesli e fragole è ormai vuota, mentre dal bar al piano di sotto salgono le voci dei local, qualcuno ha comprato il giornale e commenta con una certa ironia gli ultimi avvenimenti politici, i proprietari sembrano più interessati a parlare del campionato e della campagna acquisti per la stagione successiva. Poco oltre, i motoscafi e le barche ormeggiati al porticciolo sono tutte in paziente attesa dei proprietari, pronte ad avventurarsi nel golfo in una giornata che sembra promettere il meglio dell’estate. Si sporge dal balcone per inebriarsi di quel profumo di caffè e macchia mediterranea, sperando che le regali l’adrenalina giusta per affrontare la giornata. Va a controllarsi nello specchio del bagno, appoggiando le mani sul piano in marmo rosa, per scrutare nel vetro la presenza di una qualunque imperfezione sul volto o nei capelli, che ha pettinato all’indietro, uno spray effetto bagnato dal prezzo spropositato che aveva preso per capriccio appena sbarcata a Portofino, la fa sembrare appena uscita da un tuffo nelle acque cristalline che sono solo a pochi metri di distanza da lei. Prende un respiro, sorride al suo riflesso nello specchio, come vorrebbe fare più o meno quando incontrerà Giorgio, tra un’oretta circa, e si decide ad uscire dalla camera.
Scesa in piazzetta, si avvia con un certo nervosismo verso l’enoteca che ha trovato dopo ore di ricerche su dei forum di appassionati: non che si nasconda alla vista, il Winterose si incastona perfettamente in uno di quei palazzi colorati di terra bruciata di Siena che si alternano a facciate ambra e zucca. Alcuni avventori sono già seduti ai tavoli in legno fuori. I loro sguardi sono rivolti con aria di approvazione alla lavagna che riporta i vini consigliati per la settimana, mentre un’elegante signora dai capelli color miele raccolti in una coda bassa, chiacchiera con qualcuno di loro. Il pesante portone in legno verdone dietro di lei è aperto, lascia intravedere un piccolo locale con qualche tavolino e un angolo bar, sulle scaffalature è poggiata una infinita quantità di bottiglie.
Di vino non capisce molto, è inutile anche solo fingere una qualche competenza per darsi un tono. La signora di prima, evidentemente la proprietaria, dal modo nel quale si muove, coglie subito il suo sguardo indeciso, e le viene in soccorso. Abituata a parlare con clienti stranieri, cambia lingua con scioltezza, invitandola ad entrare nel piccolo locale dove un uomo dall’aria burbera sta preparando un aperitivo con salumi e formaggi per i primi arrivati, evidentemente a suo dire, troppo presto. Alina, così si presenta la proprietaria, le chiede un paio di indicazioni, la conduce con sapienza alla scelta migliore, un bianco locale, un “grande classico della zona”, vermentino “perfetto da abbinare a burro e alici, ma anche ai crostacei”, consiglia Alina. Nel frattempo, ruba dal vassoio degli aperitivi appena preparato dall’uomo al bancone, una ciotola di mostarda di cipolle, le porge un vassoio comparso da chissà dove di focaccia bianca, con grani di sale grosso e rosmarino, invitandola a provare, nel mentre lei procede a infilare la bottiglia scelta in una confezione da regalo. L’uomo al bancone brontola per l’effrazione, Alina lo mette a tacere con uno sguardo. Accetta senza aver davvero fame, ma un tale atto di coraggio merita una ricompensa, in fondo.
Sorride ad Alina mentre paga, prende la sua bottiglia, e saluta, dirigendosi poco distante: Giorgio le ha dato appuntamento in un bar abbastanza singolare. Si chiama U caban, che nel dialetto locale sta ad indicare una qualità di granchio: e parlando di pesce, il posto, al primo piano di uno degli edifici della piazzetta, è fornito di un balcone che vuole ricordare la silhouette di un motoscafo. Anche l’interno segue lo stesso leitmotiv, si rende conto, entrando nel locale: pavimenti e tavolini in tek, le poltroncine e le panche sono rivestite con cuscini color avorio con profili blu, gli stessi colori che si ritrovano nelle divise dei camerieri. Si siede al tavolo sul balcone, che uno di loro le indica, portandole subito dell’acqua nell’attesa. Ne riempie un bicchiere e lo trangugia d’un sorso, sentendosi assai a disagio. Quando aveva trovato la cartolina, una settimana prima, era tornata a controllare sull’agenda di sua madre, per verificare se ci fossero dei numeri telefonici con il prefisso di Portofino.
Fortunatamente ce n’era solo uno, e in maniera ancora più casuale, il numero sembrava ancora attivo: le aveva risposto una voce di donna dall’accento sud-americano, aveva scoperto poi che si trattava della governante della casa. Ovviamente non aveva capito di cosa lei avesse bisogno o di chi stesse parlando, le aveva consigliato però di richiamare all’ora di cena, per parlare direttamente con il signor Giorgio, il proprietario di casa. Quando qualche ora dopo, aveva richiamato come da accordi, al telefono aveva risposto una voce maschile, all’apparenza severa, sospettosa: appena compreso che Caterina parlava inglese, si era adeguato alla sua lingua con un accento che sapeva di collegi svizzeri e istruzione del più alto grado, forse in qualche università inglese. Infastidito da una sconosciuta che disturbava la sua cena, sembrava abbastanza impaziente, come se non vedesse l’ora di congedarla: a trattenerlo era solo un’educazione impeccabile. Non aveva idea di ciò di cui Caterina stava parlando, ma aveva promesso di fare delle ricerche per scoprirne di più, e farsi eventualmente risentire. In maniera del tutto inaspettata, visto come si erano messe le cose, un paio di giorni dopo aveva ricevuto una sua chiamata. Giorgio le aveva dato appuntamento in quel bar, senza anticiparle troppo.
Non sapeva neanche perché aveva comprato una bottiglia di vino, come se fosse stata invitata a casa sua, cosa che chiaramente non era successa, ma se aveva delle notizie su sua madre e suo padre, era il minimo che potesse fare per ringraziarlo. Quando sente chiamare il suo nome, si riprende dai pensieri che l’avevano distratta. Si alza, come sull’attenti: accanto a lei, un ragazzo della sua stessa altezza, un metro e 70, massimo 1.75, ma con un paio d’anni di meno. Un dettaglio che la stranisce, dalla voce severa aveva pensato fosse abbastanza più grande di lei. L’espressione è cortese, ma distante, si sposta un ciuffo di capelli castani dalla fronte per portarselo indietro, indossa una polo bianca in spugna, dei bermuda khaki dal fit perfetto, morbido senza essere over. Si toglie gli occhiali con la montatura tartarugata per presentarsi ufficialmente, “prego” dice indicandole la sedia dove la invita a tornare a sedersi, sistemandola meglio per lei. Nel frattempo parla in italiano con il cameriere dandogli delle istruzioni che paiono brevi ma precisissime. In breve tempo sul tavolo si palesano un piattino di gallette, burro e alici e pomodori secchi, e due calici di vino bianco.
Bere prima del pranzo le sembra sacrilego, ma a quanto pare da queste parti sono abbastanza ossessionati dal vino, e vuole guadagnarsi la simpatia di Giorgio, cosa che sembra molto lontana dall’avvenire, quindi ringrazia. “Mi sono preso la libertà di ordinare anche per te. Questo posto era un vecchio whisky bar, oggi ci si viene a fare l’aperitivo con tutti quei prodotti liguri per i quali voi americani pagate cifre spropositate. Conosco il proprietario, è un amico di famiglia, ci vengo spesso anche se l’idea di un balcone concepito come la carena di un motoscafo, è forse un filo eccessiva per i miei gusti» commenta accendendosi una sigaretta, tirandone fuori una da un portasigarette in argento, con due iniziali incise. Conviene con un certo imbarazzo, per darsi coraggio ingurgita un sorso del vino color giallo paglierino, che sa di rosmarino, basilico, macchia mediterranea, e dal retrogusto salmastro. Gli porge la scatola con il vino che ha acquistato all’enoteca, che sicuramente non sarà all’altezza dei raffinati gusti di questo post-adolescente che pare uscito da un film anni Sessanta. “L’hai preso da Winterose”, commenta con un sorriso, evidentemente soddisfatto della scelta. Quando apre la confezione, la sua espressione cambia per un attimo, scorre velocemente sul suo volto il dubbio, la condiscendenza, e infine una calma serafica sembra impadronirsi di lui. Chiacchierano per qualche minuto del più e del meno, la conversazione fluisce senza problemi, in maniera naturale, anche se Caterina freme dal desiderio di chiedergli cosa abbia scoperto, ma ha già compreso che il ritmo di questo passo a due, lo decide solo lui, e non le pare il caso di forzargli la mano.
Ha aspettato anni, cosa sarà mai un’altra mezz’ora? Parlano del più e del meno, Giorgio ha frequentato un collegio svizzero e poi un’università americana, la stessa di suo padre, e poi si è preso un anno sabbatico prima di capire cosa fare, del suo futuro. Conosce Chicago, ci era stato per un colloquio con la banca di investimenti più importante della città, poi non se n’è fatto più niente, al gelido e costante inverno della città e alla sua deep dish pizza ha preferito la vista sul Tigullio, e delle cernie appena pescate da qualcuno di fiducia. Spegne la sigaretta nel posacenere al centro del tavolo, sembra che abbia preso una decisione. “Questo vino dovremo abbinarlo a qualcosa di adatto”. Senza dire altro, si alza, invitandola a fare altrettanto. Saluta con familiarità i camerieri, e si dirige verso l’ingresso: sembra provinciale chiedere se ha pagato, probabilmente ha un conto aperto in quel locale dal momento nel quale quella barca si è affacciata su un balcone di Portofino. Con un passo placido, ma deciso, Giorgio si dirige verso il porto, c’è una barca ormeggiata dove un vecchio signore sta sistemando le cime d’ormeggio. La discussione è in un italiano stretto, veloce: in men che non si dica vengono incartate e inserite in una busta di plastica, tre corpose sogliole.
“Ce l’hai un costume?”, le chiede mentre saluta il signore con un cenno del capo. Annuisce, seguendolo, anche se non sa esattamente dove si stiano dirigendo. A pochi passi dalla piazzetta, su una salita ripida che porta fuori dal centro, Giorgio si ferma vicino ad un portone seminascosto dalla vegetazione, digita qualcosa dal suo cellulare, e l’ingresso si apre. “Non preoccuparti, sembra la caverna di Batman, ma giuro che poi migliora” le garantisce invitandola ad entrare in un tunnel che è scavato nella roccia, incredibilmente largo, che Giorgio le spiega, è usato come ingresso principale alla casa, ma anche come parcheggio. E in effetti, ai lati del corridoio in pietra si aprono delle conche, in questo momento vuote, tranne che per una spider d’epoca, rosso fuoco, con la capotte abbassata, che sembra pronta per un giro nella baia. Alla fine del corridoio, Giorgio le indica un ascensore. Quando ne esce, due piani più su, la investe la luce del mezzogiorno. Si ritrova in un’oasi di macchia mediterranea, qualcuno ha la radio accesa che passa vecchie canzoni anni Sessanta, c’è rumore di padelle dalla cucina, sulla veranda la tavola è apparecchiata.
Nel giardino che le si staglia davanti, a fare da protagonista è la piscina, che si affaccia sul mare, ed è corredata da ombrelloni a righe bianche e azzurre, sdraio bianco latte con asciugamani in spugna ordinatamente piegati e appoggiati sopra, come se aspettassero qualcuno. La vista toglie il fiato: si vede la gente che sta uscendo dalla chiesa di San Martino, con quella navata a righe, anche lei, gialle e grigie, e poi più in là il castello Brown, le ville a picco sul mare, con le scalette in pietra che portano a degli scogli privati, dove sono attraccati dei piccoli motoscafi. Sembra una foto di Slim Aarons: crede di averlo pensato e invece lo dice a voce alta, mentre guarda il panorama “In effetti lo è, Slim era amico del nonno, qualche foto della casa l’ha fatta, mi dicevano che si mettesse sul tetto, per prendere il panorama, e poi gli amici che erano in piscina”, le risponde Giorgio ridendo. Senza che abbia il tempo di stupirsi, dall’abitazione esce una filiforme ragazza dai lunghi capelli castani, maxi occhiali e vestito tricot, ovviamente a righe, lungo fino ai piedi, scalzi. Ha un accento francese, Giorgio la presenta come Lucille, la sua fidanzata. Parlano in italiano, lui le porge la bottiglia di vino che Caterina ha regalato, Lucille lo guarda trattenendo le risate. “Ho scelto davvero così male?” Tanto vale tagliare la testa al toro, e farla finita con quell’imbarazzo persistente che sta per innervosirla. “No, no di certo”, risponde Lucille in inglese “hai scelto benissimo, è il vino che produce la famiglia di Giorgio, vado a metterlo in frigo”.
“In realtà è anche il vino che ho ordinato prima, se la scelta ti piace, possiamo usarlo per pranzo, col pesce fresco è l’abbinamento perfetto” sorride, e sembra diventato un’altra persona. La realtà, Giorgio si scusa mentre viene portato del vino ghiacciato da una domestica in completo bianco, probabilmente la stessa donna che le ha risposto al telefono, è che “non sarebbe la prima volta che qualcuno vanta antiche amicizie familiari con mio nonno o con mio padre, e finisce sempre, chissà perché, nella richiesta di un finanziamento per un imprescindibile e avverinistico progetto. La sicurezza che Caterina non facesse parte di quella folta schiera, era arrivata quando aveva visto la bottiglia di vino “Poteva essere solo un atto di sfacciata piaggeria, e non mi sembra il tuo caso, oppure, semplicemente, non avevi davvero idea di chi io fossi. Ho deciso di propendere per la seconda” commenta, invitandola a toccare i bicchieri per fare un brindisi mentre dalla casa si alza il volume, e si spandono nel giardino le note di vecchie melodie italiane. Prendono posto a tavola, la conversazione fluisce, fin quando nell’aria sente una musica conosciuta, la voce suadente di Dalida che canta delle meraviglie di Portofino. Era la canzone preferita del nonno, spiega Giorgio, la metteva in continuazione, la domestica ci si è appassionata ed è divenuta una sorta di colonna sonora ufficiale dei pranzi con gli amici.
Sembra maleducato interrompere quell’atmosfera serena, ma Caterina non è arrivata fin lì per un tuffo nella piscina a strapiombo sul mare – per quanto abbia il costume perfetto – e un pranzo a base di pesce fresco. Giorgio coglie quello sguardo impaziente, sorride a Lucille, seduta accanto a lui, e chiede a Consuelo, così si chiama la domestica, di portargli l’album di fotografie che aveva appoggiato sulla scrivània dello studio. Poi, finalmente, inizia a spiegare. Lui non era neanche nato all’epoca, quando ha ricevuto la chiamata di Caterina ha telefonato ai suoi, che ora vivono in Asia per lavoro, chiedendo loro chi era quella certa signorina Smith, che sosteneva che suo padre Ezra fosse in qualche modo un vecchio amico di famiglia. Suo padre dall’altro capo del telefono e del mondo, aveva ripetuto il nome, Ezra Smith, con uno stupore genuino, una sorpresa inaspettata ma piacevole. Pareva che i due avessero frequentato la stessa università americana, Stanford: Ezra non era uno di grandi mezzi, ma aveva avuto una borsa di studio sportiva, era nella squadra di nuoto della scuola, lo prendevano in giro perché l’unica forma nella quale uno di Chicago era abituato a fendere l’acqua, era quando ci si doveva far strada tra la neve.
Erano rimasti buoni amici e un paio d’anno dopo la fine dell’università, quando ci si era persi di vista, Ezra aveva chiamato suo padre, dicendo che era in Italia per l’estate, e che sarebbe passato a salutarlo. Suo padre lo aveva invitato a casa per pranzo, seduti a quello stesso tavolo dove erano loro adesso, lui si era presentato con una donna, sembrava una relazione nata da poco ma importante, o almeno così gli aveva detto suo padre. Avevano passato la giornata lì, in piscina, bevendo vino e ridendo della vita, sicuramente quella canzone di Dalida era passata almeno un paio di volte sul vecchio giradischi del nonno. Nel frattempo Consuelo si palesa in veranda, con un raccoglitore di foto in plastica, con la copertina blu che ha stampato il nome dello studio fotografico locale. Giorgio lo prende, lo sfoglia velocemente, fino a trovare la foto che cercava, estraendola dalla velina in plastica e consegnandogliela. “Mi ha detto di darti questa, è di quel giorno”. Le mani le tremano mentre prende la foto dalle sue mani, senza quasi avere il coraggio di guardarla. Le dà uno sguardo veloce, quella visione è intima e vuole godersela da sola, più tardi. “Tuo padre si ricorda per caso se il mio gli ha detto dove sarebbero andati, poi?”
Giorgio continua a sorseggiare il vino, le ultime note di Portofino di Dalida si spengono nel silenzio rotto solo dai cinguetti di qualche pettirosso, comodamente appoggiato sulla balaustra che protegge la piscina. “Mio padre ci ha pensato per qualche giorno, mi ha fatto cercare tra delle vecchie agende che non sono state buttate Dio solo sa perché. Ma alla fine si è ricordato di un dettaglio: Ezra gli disse che aveva conosciuto qualcuno giù, in Puglia. In California aveva imparato a surfare, a quanto pare, un’altra cosa assai poco tipica per uno di Chicago, e aveva scoperto che dalle parti del Salento c’era una peculiare comunità di surfisti e alcuni degli spot più belli del paese. Contavano di andare lì, dopo. Consuelo, perdonami, chiudi gli ombrelloni? Dice, cambiando lingua e intonazione della voce «Si è alzato uno strano vento, chissà da dove viene».
Caterina torna a guardare quella foto: una tavola, quella stessa tavola, piena di amici che ridono, qualcuno con un sigaro, altri con le posate in mano pronti a inforcare il cibo sulla tavola. Tra di loro, ci sono i suoi genitori, seduti vicini, che ridono. Non lo sa neanche lei, da dove viene quel vento, ma sa dove la sta portando. A sud, in Puglia, nel suo passato, e forse, finalmente, nel suo futuro.