On the roadBack to the roots of Italy: un viaggio-podcast tra le vigne toscane

La prima puntata della serie podcast by Loro Piana & Linkiesta Etc, a cura di Giuliana Matarrese, fa tappa in Toscana

Courtesy of Loro Piana

Questo è il diario on the road di Caterina, giornalista di Chicago a caccia delle sue radici italiane. Una nuova serie podcast alla scoperta dell’Italia più autentica by Loro Piana & Linkiesta Etc, a cura di Giuliana Matarrese. Prima tappa: brunch tra le vigne della Toscana. Allacciate le cinture, sintonizzatevi sulla vostra playlist preferita, chiudete gli occhi e godetevi il viaggio.

«Quale storia vuoi raccontare oggi?». Se lo ripete ogni mattina, quando apre le ante dell’armadio. Glielo ripeteva anche sua nonna, invitandola a giocare con i vestiti, immaginandosi vite altre, anche perché, dell’unica che stava vivendo, non aveva bastevoli informazioni. Ma in fondo, è per quel motivo che si trova lì, a migliaia di chilometri da casa sua, alla ricerca dell’unica storia della quale non sapeva poi molto. 

L’armadio in ciliegio della camera del boutique hotel all’interno della serra Torrigiani, paradiso botanico immerso nell’Oltrarno fiorentino, si apre con una certa indolenza. Le ante originali, rovinate dal tempo, sono state rimesse a nuovo e ricoperte di seta, sulla quale è stampata una scena che ricorda la vivace vita delle piazze cittadine, in età medicea, quando Firenze era il centro del mondo, la porta su un futuro ancora ignoto, da scoprire e decifrare con perizia matematica.

Il suo, di futuro a breve termine, le richiede un compito molto meno gravoso: l’unica cosa che deve decifrare è ciò che indosserà, per imbarcarsi nell’avventura più importante della sua vita. Nell’armadio sono ordinatamente appesi abiti chemisier in georgette di seta con con stampe floreali, dolcevita in cachemire lavorato per creare una quadrettatura sulla superficie, gonne plissettate tinte di un colore lattiginoso, blazer e pantaloni cinquetasche mélange in lino. Seguendo l’istinto, tocca con la punta delle dita il vestito, si ricorda una scena di un qualche film italiano visto da bambina, su un qualche vecchio vhs preso dal Blockbuster locale, prima che la modernità facesse loro chiudere le serrande. 

Una Liv Tyler adolescente che scombussola il placido stile di vita di un gruppo familiare insediato in una casa colonica, poco distante da lì, a Siena. Indossava un vestito simile, mentre cercava, come lei, risposte sul suo passato. Lo indossa, mentre dal giardino arrivano i rumori della giornata che inizia: qualcuno si muove per il sentiero in pietra vicino alle serre, trasportando una carriola, gli ospiti in terrazza, al piano superiore, chiacchierano gustando la colazione, la musica in filodiffusione le arriva attutita, ma piacevole: un motivo anni Novanta dei Cocteau Twins, un dreampop etereo che si sposa benissimo con la sensazione di pace assoluta che rivive in quel boutique hotel che l’aveva conquistata già dal nome, Ad Astra. Sopra il vestito indossa una giacca in lino con collo alla coreana, prende l’agenda dove l’aveva lasciata la sera prima, accanto al letto, su un pouf in velluto rosso cardinale e se la fa scivolare velocemente nella tasca, mentre si infila i mocassini in suede color sabbia. 

In terrazza, su un balcone in pietra con vista sul giardino privato più grande d’Europa ( così diceva il sito tramite il quale aveva prenotato), tormenta il piatto di uova strapazzate senza decidersi a mangiarle. Sfoglia nervosamente l’agendina con la copertina in pelle color tabacco, unica testimonianza tattile di quei mesi che sua madre ha passato in Italia. Gliel’ha consegnata sua nonna con molta reticenza, dicendo che tutto quello che poteva esserle successo, la gente che aveva conosciuto, era nascosta lì. 

Aveva perlustrato quel librino come fosse un reperto di un’era lontana, cercando di carpire da ogni nome, ogni curvatura delle lettere, una storia e un personaggio di cui conosceva pochissimo. I suoi erano scomparsi molti anni prima, quando era solo una bambina, in un incidente d’auto sfortunato, di quelli che la gente si dimentica il giorno dopo. Di loro non aveva alcun ricordo, qualche foto di sua madre quando era molto piccola e poco altro, i nonni materni si erano occupati di crescerla, in una casa grande e anonima dove i pochi rumori di una qualche forma di vita, qualche padella che sfrigolava, la televisione accesa, rimbombavano nel silenzio generale. In quell’agenda, probabilmente, tra quelle pagine consumate e con pochi indirizzi, si nascondeva la soluzione all’enigma che l’aveva accompagnata tutta la vita, primo su tutti perché si chiamasse Caterina, nonostante entrambi i suoi genitori fossero di Chicago. 

E proprio da Chicago, in una giornata piovosa di primavera, aveva trovato il coraggio di iniziare a comporre alcuni dei numeri in quella rubrica. Numeri fissi, molto spesso disattivati: chi ha più il telefono in casa, in fondo? Dopo molti tentativi a vuoto, una voce cavernosa aveva risposto dall’altro capo del telefono, evidentemente sorpresa che qualcuno chiamasse ancora ad un aggeggio considerato ormai modernariato. L’inglese era stentato, ma erano in qualche modo riusciti a capirsi: Libero, così si chiamava l’uomo di cui non conosceva altre informazioni, oltre il numero di telefono, aveva conosciuto i suoi genitori, diceva. Se programmava a breve un viaggio in Italia, potevano vedersi, aveva ancora qualcosa di loro che forse le avrebbe fatto piacere avere. Il biglietto di sola andata era stato acquistato esattamente sette minuti dopo. Le aveva dato appuntamento in una cantina nel Chianti, avrebbero pranzato in una tenuta poco distante. Era arrivata lì da qualche giorno, il tempo di acclimatarsi, e sentirsi pronta per quell’incontro.

Tamburella nervosamente con le dita sul tavolo, con l’altra mano si riporta dietro l’orecchio il ciuffo   color miele che si sfila testardo, dal caschetto. Ha finito l’università da poco, si è laureata in Letteratura, i professori le hanno proposto di proseguire con una specialistica in scrittura creativa, nel frattempo alcune case editrici hanno già risposto interessate al suo curriculum. Tutto però, è messo in pausa: la vita vera non può davvero, ancora, cominciare. E sebbene il giornale dell’University of Chicago abbia già pubblicato con un certo successo diversi suoi racconti brevi, come si può scrivere delle vite degli altri, se non si conosce a fondo la propria? Per questo si è imbarcata in quel viaggio con l’incoscienza quasi metodica con la quale ha affrontato qualsiasi scelta della sua vita, uscendone sempre miracolosamente illesa. 

Mangerà più tardi, si decide, abbandonando il tavolo della colazione. Attraversa correndo il salone dell’hotel: una stanza inondata di luce, con i tetti affrescati risalenti all’800,  parquet a lische e, per contrasto, mobili e suppellettili di design degli anni Cinquanta e Sessanta. Rimarrebbe lì ore, ma la proprietaria le ha lasciato in giardino una bicicletta, per muoversi più agilmente tra le due rive dell’Arno. Inforca la Graziella beige, infilando la borsa nella cesta in legno sul retro, muovendosi a ritmo sostenuto tra le vie già rumorose di Santo Spirito, costeggiando le serre, piccoli orafi e fabbri che chiacchierano fuori dalle loro botteghe, i grembiuli già indosso, diretti verso il caffè più vicino. 

Parlano tutti a voce alta, in quella città, si danno voci da una parte all’altra della strada, salutandosi tra commercianti e inquilini del quartiere che frequentano gli stessi negozi, o che portano a passeggio i cani: dicono che Jeff Goldblum sia venuto ad abitare a Santo Spirito da qualche tempo, la Lonely Planet ha incoronato l’area, insieme al quartiere di San Frediano, come il quartiere più cool del pianeta. Ai fiorentini della zona non sembra che interessi molto, essere cool, e se lo sapessero, che la Lonely Planet li ha definiti così, apostroferebbero la rivista con un qualche pittoresco epiteto dei loro, tutti vocali aspirate e dileggio. Sfreccia veloce accanto alla Chiesa di Santa Maria del Carmine, quella nella quale è ospitata la Cappella Brancacci di Masaccio e Masolino, che qualche studente della vicina scuola d’arte sta dipingendo, posizionato nella piazza poco distante. Si ferma all’angolo con via dei Serragli, appoggiando la bici accanto alla fila di ragazzini che fanno la coda per entrare nella famosa cabina di foto automatiche rossa, sormontata dal disegno di un putto michelangiolesco, che, con la migliore ironia fiorentina, ha accanto una vignetta attraverso la quale esprime frasi che sarebbe meglio evitare di ripetere di fronte ad un pubblico sensibile. 

Il flash dentro la cabina è accecante ma tutti quegli americani di qualche anno più piccoli di lei non lo sanno, e forse non gli importa neanche: attendere qualche minuto per una foto che, con tutta probabilità, non sarà perfetta come quelle dei cellulari, sembra un gesto talmente antico da divenire rivoluzionario. Entra nel piccolo forno accanto: sembra una boulangerie francese, con il pavimento in cotto e la grande credenza in legno dove sono esposte sughi e conserve, l’insegna vintage Anni 60 non lascia dubbi sulla destinazione d’uso del posto: recita “Panificio” senza dare ulteriori specifiche, come fanno i fiorentini nel loro sublime riserbo, che tradisce lo snobismo di chi sa di esser nato nella culla del Rinascimento e di non dovere altre spiegazioni al resto del mondo.

Eppure lo sanno tutti come si chiama quel posto: da Sforno si trova uno dei budini di riso migliore della città, insieme al panino al cioccolato più morbido che ricorda di aver mai mangiato. Chiede alla ragazza dietro la cassa una tazza per fare rifornimento di caffè americano, appoggiato su un tavolino poco distante, mentre una anziana signora con un carrellino per la spesa al seguito, ordina il pane e seleziona con cura il paté per i crostini. Sorseggia il caffè in fretta, al bancone, mentre osserva il suo vestito, chiedendosi se sia stata la scelta giusta. 

Molti dei capi del suo guardaroba sono lì da sempre: ogni camicia, ogni maglione a collo alto, è una piccola madeleine tessile. Un abito indossato in un momento speciale, in fondo, diventa eterno, si perpetua ogni giorno nella memoria, e sembra criminale pensare di disfarsene. O almeno così le ha insegnato sua nonna, che le ha passato diversi cardigan in cachemire conservati con cura certosina, come se più che un armadio, si dovesse aprire un cofanetto di gioielli. Controlla il cielo dalla porta finestra del locale, mentre finisce di sorseggiare il caffè: l’aria è tersa, è una di quelle giornate fiorentine nelle quali sembra rivivere l’atmosfera incantata di Camera con vista, dove una giovane Helena Bonham Carter, inglese a Firenze agli inizi del 1900, si innamora della città, dalle stanze di una pensione con le finestre sull’Arno. Posa la tazza di caffè vuota sul bancone, saldando il conto, e, lanciando un ultimo sguardo speranzoso al putto ancora attorniato dai turisti, salta in bici.

La jeep che ha affittato per arrivare a destinazione si muove senza fretta sulla Chiantigiana, la strada turistica che attraversa quello che gli anglofoni chiamano Chiantishire. D’altronde, un panorama del genere, pacificato ma mai piatto, dove colline e pianure si alternano senza mai litigarsi lo spazio della visuale, e dal quale esala forte l’odore del ginepro, va goduto con la dovuta calma. La strada stretta, dove abbondano le curve panoramiche, fa il resto. Castagni e abeti costeggiano le strade, i capanni dove oggi si conservano attrezzi agricoli, e dove ieri abitavano i carbonai, sono ricoperti dai cespugli delle ginestre, che fioriranno con il loro giallo carico più avanti, in estate. 

L’odore della bella stagione che sta arrivando, però, le arriva sino nelle narici. Accende la radio per farsi un po’ di compagnia: cercando tra le frequenze una che si senta abbastanza bene nel mezzo della campagna toscana, capita su una radio locale che, chissà perché, sta ripassando quella canzone dei Cocteau Twins che aveva sentito la mattina a colazione. Una coincidenza? Non si rovina il viaggio chiedendoselo, ma abbassa il tettuccio e riprende a guardare la strada.

Arrivata alla Tenuta Case Nuove, l’accolgono delle installazioni di arte contemporanea da lì posizionate  all’ingresso dal francese Astruy, imprenditore che ha acquisito il complesso qualche anno prima. Nel mezzo del Chianti amato da Cosimo III dei Medici, filari di viti circondano la costruzione. Poco distante si erge la Torre San Martino, costruzione medievale oggi trasformata in agriturismo con vista privilegiata sulla Conca d’oro. Si inerpica a piedi sulla breve salita sassosa che conduce alla Torre, sotto un pergolato di glicini riconosce Libero dalla voce. Pancia prominente stretta in una camicia a quadri, baffo folto e sorriso sincero, lo accompagna una signora, sua moglie, più abile di lui con l’inglese. Il tavolo in legno è già stato apparecchiato, il vino rosso nelle brocche in terracotta viene generosamente versato nei bicchieri. 

Tramite la traduzione della moglie, mentre qualcuno esce dalla cucina servendo crostini e salvia fritta, Caterina apprende che, dopo l’anno passato in Italia per studiare storia dell’arte, sua madre si era fermata a stare per qualche settimana da loro, che avevano una pensioncina poco distante, a Panzano in Chianti. Nel loro ristorante aveva incontrato per la prima volta suo padre, capitato lì per caso. Si era preso un anno sabbatico, dopo aver lasciato il suo lavoro in uno studio legale. Diceva di esser lì perché cercava una storia da raccontare, forse voleva fare lo scrittore. I due avevano iniziato a parlare di Bertolucci, di cinema italiano, e non avevano più smesso. 

Qualche giorno dopo sua madre aveva salutato Libero e sua moglie senza lasciare molte spiegazioni, ma non era difficile immaginare il motivo. Qualche settimana dopo, avevano ricevuto una cartolina, spiega Libero estraendo dalla tasca dei jeans slavati una busta di carta ingiallita. Caterina apre la busta con le dita nervose, per due volte non riesce a far scivolare la cartolina fuori, come se quel momento che ha atteso così a lungo, continuasse a rifiutarsi di arrivare. 

La cartolina riporta una vista di una porticciolo caratteristico, circondato da case colorate in un arcobaleno di senape, terra bruciata di Siena,  ambra e mandarino, con tetti spioventi, e puntellato di bar tipici. Sul retro, la scrittura che ha imparato a conoscere studiandola sull’agendina. Una frase breve, che tradisce l’entusiasmo nella velocità d’esecuzione: “I found my love in Portofino”. Ricontrolla la busta, c’è un indirizzo, privo di nome. Forse, quella storia che voleva raccontare l’ha trovata senza che dovesse cercare molto. E ora, le ha dato appuntamento a Portofino.

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