Civis romanus fuiAlla caduta dell’Impero, Roma scoprì che non aveva bisogno di un imperatore

Dopo il 476 d.C. in Italia sopravvisse la struttura statale, ma l’impronta restò evidente anche nelle regioni che ancora conservano una toponomastica latina. Kulikowski racconta un declino contrassegnato da intrighi di palazzo, conflitti religiosi e guerre

Mosaico di Ravenna
Mosaico di Ravenna (Catalogo generale dei Beni Culturali)

Il 31 ottobre 475 a Ravenna Oreste proclamò imperatore il giovane figlio, Romolo. Ma per lui go- vernare si rivelò un compito impossibile, soprattutto perché un impero da governare praticamente non esisteva più. L’Italia aveva una base risibile per la leva fiscale, e il sostegno di Oreste si limitava ai pochi soldati rimasti fedeli alla sua persona. Quel che restava dell’esercito permanente, che si era rifiutato di combattere per Glicerio o per Nepote, ora si ammutinò chiedendo terra con cui sostentare la famiglia, dato che le paghe non erano più adeguate.

Capeggiò la rivolta un certo Odoacre. Invece di appoggiare un pre- tendente o di sfidare Oreste per il magisterium, si dichiarò rex Italiae e da Ticinum si mise in marcia verso Ravenna. Oreste cercò di contrastarlo. I rispettivi eserciti si scontrarono a Placentia, dove Oreste fu catturato e ucciso il 28 agosto 476. L’esercito di Odoacre avanzò su Ravenna – la sua meta originaria – che era difesa dal fratello di Oreste, Paolo.

Il 4 settembre la città cadde e a Paolo toccò la stessa fine violenta del fratello. Il loro teorico imperatore, il giovanissimo Romolo Augusto, noto alla storia con il diminutivo di Augustolo, fu deposto ma non giustiziato. Venne invece mandato a vivere in Campania nelle proprietà di famiglia. Né i suoi parenti né il fuggivo Nepote sembravano poter essere una minaccia.

Il calcolo di Odoacre si rivelò corretto. Zenone, come vedremo, aveva fatto fronte a sua volta a un tentativo di usurpazione negli stessi anni in cui Glicerio, Nepote, Oreste e Odoacre combattevano per il potere. L’augusto orientale non aveva alcun interesse a impelagarsi oltre in Occidente. A nome loro, e non di un imperatore, Odoacre e il senato di Roma inviarono un’ambasciata a Costantinopoli con la quale riconoscevano la sua autorità.

Non avevano più bisogno di un altro sovrano. Zenone però continuava a riconoscere Nepote, ora in Dalmazia, come legittimo augusto d’occidente. Nonostante ciò non mosse un dito per ristabilirne il potere in Italia. E nemmeno Nepote osò tentare la sorte da solo.

Per quanto sia difficile da credere, le aristocrazie occidentali e financo il senato di Roma avevano scoperto che un imperatore non gli serviva più. Potevano benissimo condurre i loro affari e svolgere i loro incarichi affidandosi ai meccanismi superstiti del governo imperiale, per i quali la presenza di un imperatore era diventata superflua. Di fatto, i litigiosi pretendenti alle vestigia del titolo imperiale erano palesemente più un problema che un vantaggio.

Il fatto forse ancor più sorprendente è che sia Zenone sia Nepote riuscirono a cogliere la saggezza di questa nuova finzione costituzionale. Riconobbero quindi la legittimità del regime di Odoacre, il quale coniò monete con i loro nomi, ma la sua indipendenza de facto rimase incontrastata.

In Italia sopravvisse la struttura imperiale di base: i prefetti del pretorio continuarono ad amministrare le questioni pubbliche e civili sotto il comando di Odoacre, e il senato di Roma ottenne, se non altro, più potere di quanto non ne avesse esercitato per secoli. Il fatto che Odoacre in pratica non riuscisse a proiettare il suo potere al di fuori dell’Italia, dimostra solo quanto fossero scomparse, nel complesso, le sovrastrutture del governo imperiale tra il 440 e la fine degli anni ’70.

In meno di una generazione alcune province erano diventate regni. Talvolta erano governate da coalizioni stabili di élites militari e vecchie aristocrazie terriere romane; in queste regioni (Italia, Africa Vandalica, Gallia gotica occidentale, Spagna nordorientale, Gallia burgunda occidentale) l’apparato governativo romano continuava a funzionare in maniera piuttosto efficiente; se non che non era collegato al resto dell’apparato imperiale.

In altri regni invece (come in gran parte della Spagna ad eccezione della Terraconense nordorientale) il potere fu devoluto alle classi dirigenti cittadine e municipali, oppure cadde nelle mani di rapaci signori della guerra o di latifondisti aristocratici il cui governo significava taglieggiamento non meno che amministrazione; nella Gallia settentrionale e in Germania, sotto Siagrio così come sotto qualche principino franco, le strutture di governo scomparvero ed è dalle loro macerie che si sarebbe dovute ricostruirle nei secoli successivi; solo le sedi episcopali rimaste continuarono a mantenere qualche parvenza di consuetudine amministrativa romana. Alla fine del V secolo in Britannia si era dissolta anche la struttura ecclesiastica.

Il contrasto tra le regioni che preservarono un’impronta imperiale, almeno localmente, e quelle che la persero del tutto, può essere meglio illustrato dalla toponomastica. In Spagna, Italia e in quasi tutta la Gallia, i nomi romani delle città si sono conservati fino ad oggi, e sarebbe stato lo stesso in Africa se non vi fossero state le conquiste arabe del VII secolo. Invece in tutta la Britannia e nella Gallia a nord della Narbonense e dell’Aquitania, i nomi romani delle città sono scomparsi.

Furono sostituiti o con nomi tribali preromani (per cui Lutetia Parisiorum oggi si chiama Paris e non Lutèce) in un processo regionale di cambiamento che possiamo già osservare nel IV secolo; o con dei nuovi nomi di etimo germanico. È una testimonianza generica ma significativa. I regni postromani dell’impero d’Occidente sono argomento per un libro. Ma c’è un punto – largamente ignorato in questo e nel precedente capitolo a causa dell’incalzare degli eventi – per cui l’impero d’Occidente si distingue in modo netto da quello d’Oriente: il ruolo della chiesa cristiana.

Da “Tragedia imperiale” di Michael Kulikowski, Hoepli, 385 pagine, 28 euro.