È il 2011 quando Alice Rohrwacher debutta con il suo primo lungometraggio. Ha solo trent’anni e il film si intitola Corpo celeste. Subito si avverte qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alla tradizione cinematografica nostrana, soprattutto per quanto riguarda la produzione femminile. Fino a quel momento l’industria del cinema è fieramente dominata da un olimpo di soli uomini. Gli occhi sono puntati su Sorrentino, Garrone, Virzì, Veronesi. Le donne sono rare, spesso sono attrici che passano solo in un secondo momento alla macchina da presa, come nel caso di Valeria Bruni Tedeschi. Altre si dedicano prevalentemente al lavoro di produzione televisiva. A parte Lina Wertmüller, l’Italia non contiene entro di sé la presenza di autrici dallo stile riconoscibile.
Così, quando Corpo celeste esce in sala, non fa quasi scalpore. Vince sì il Nastro d’Argento e poi il David di Donatello, ma l’opinione pubblica non lo trattiene. Del resto, la storia è bizzarra, lenta, perturbante: una ragazzina di soli tredici anni rientra a Reggio Calabria, la sua città natale, insieme alla madre e alle sorelle, dopo un lungo periodo trascorso in Svizzera. Il tema narrativo del film sembra fondarsi unicamente sul rapporto tra la protagonista e un proprio mondo spirituale, onirico, privato che sussulta internamente. Tant’è che le scene si consumano solo attraverso il suo sguardo, esso si deposita pensoso e triste sui paesaggi, sulle compagne di catechismo che sognano di diventare vallette televisive, sugli insegnanti che intonano cori di chiesa come fossero canzonacce di tendenza, sui rapporti su cui si regge la comunità. Non si capacita della grettezza e del materialismo sguaiato che costringono, permeano ogni luogo. Il cielo è metallico, grigio, come l’asfalto della superstrada che cinge il paese.
Deve arrivare Lazzaro felice, nel 2018, perché sia infine riconosciuta e acquisti fama internazionale. Nel 2014 era uscito anche Le meraviglie. Si intuisce che ciò che sta a cuore ad Alice Rohrwacher sono le comunità, la terra e i suoi cicli, le percezioni subitanee, apparentemente inspiegabili, che coincidono con epifanie mistiche, quasi soprannaturali. Un atteggiamento dichiaratamente antiprogressista. Non lo nasconde in Lazzaro felice, dove una famiglia di contadini lavora le terre di una misteriosa marchesa. La loro esistenza è cadenzata dai ritmi di lavoro, dall’alternarsi delle stagioni, abitano tutti insieme, svolgono lo stesso mestiere da generazioni. Questa sorta di eden bucolico viene frantumato quando un agente di polizia bussa alla porta del loro casale, domanda che cosa fanno, come mai i bambini non sono a scuola, se si rendono conto che la proprietà feudale è stata abolita da oltre due secoli. La marchesa viene arrestata e i contadini liberati, restituiti al mondo, perciò alla modernità. La campagna si dirada, viene violentemente sostituita dalle autostrade, dalle automobili, dai capannoni e dalle roulotte che si appostano fuori dai centri urbani, dove sostano gli zingari, i rom. È lì che i contadini, espropriati dei campi, della possibilità di lavorarli, finiscono a vivere, riducendosi a nutrirsi grazie alle erbe che crescono a ciuffi, in mezzo a cumuli di spazzatura, vicino al cemento.
Del resto, Alice Rohrwacher è figlia di un apicoltore. Insieme alla sorella Alba è cresciuta in un terreno dell’assolata provincia di Terni, badando alle api, piantando frutta e verdura, producendo e vendendo miele. Proprio come ne Le meraviglie, dove la primogenita di una famiglia di agricoltori si impunta e domanda al padre di partecipare a un concorso televisivo che dovrebbe valorizzare i talenti contadini della zona: una volta presentati all’interno della trasmissione, chi arriva primo si aggiudica un premio in denaro. Il padre si lascia convincere a poco a poco, e di nuovo il cosiddetto progresso, l’illuminazione al neon degli studi televisivi, la finzione mediatica, l’artificio tecnologico agisce come un veleno, un miasma. Trasforma e riduce tutti in caricature macchiettistiche, in personaggi buoni solo allo spettacolo, all’intrattenimento, al consumo. Alla fine, il padre sale sul palco con gli occhi pietrificati, attoniti, e balbetta: «Certe cose non si possono comprare. Il mondo sta per finire…», ma non riesce a concludere la frase perché la presentatrice, una faraonica Monica Bellucci, lo interrompe bruscamente, gli parla sopra, passa al concorrente successivo.
È sempre presente un elemento di realismo magico, in tutta l’opera di Rohrwacher. È evidente perfino nei suoi cortometraggi, Omelia contadina ad esempio, del 2020, dove inscena il funerale del mondo rurale: spazzato via, svenduto, offeso. Un cordoglio di contadini getta manciate di terra sopra la propria immagine, un immenso cartonato deposto in una metaforica bara: «Per questa commovente testimonianza che gli esseri umani possano vivere in armonia con la natura e non sono solo votati al profitto e alla distruzione di tutte le risorse, preghiamo».
E lo stesso avviene in De djess, il nono cortometraggio del progetto Women’s Tales di Miu Miu: una serie di storie brevi, di scorci dedicati alle donne, al significato che assumono nelle loro vite gli accessori, la moda, i vestiti. Alice Rohrwacher presenta un’austera, deserta località balneare dove i vestiti vengono trascinati a riva come i relitti di un naufragio, come carcasse di animali perlacei, vivi. Vengono pescati con una lenza che si arpiona alle loro grucce, e disposti uno in fila all’altro sulla spiaggia, sotto lo sguardo severo, azzurro, quasi alieno di una suora dal colletto di candida pelliccia bianca.
A quel punto, di nuovo subentra l’elemento di magia, di straniamento, di rivelazione rispetto allo scorrere degli eventi sul piano razionale e statico della realtà. Intanto, i dialoghi sono condotti attraverso una lingua d’invenzione, che contiene qualcosa di vagamente triestino, parole fantasiose, inesistenti, come tiene a specificare Rohrwacher in un primo fotogramma scritto rivolto agli spettatori. E poi gli abiti, soprattutto uno, che servirebbe a vestire una celebrità della zona, una sorta di Marylin Monroe interpretata da Alba Rohrwacher, prende vita, si anima, si scuote. Lascia cadere una perlina che si deposita ai piedi di una servetta, una delle domestiche dell’albergo, di colore e poco più che adolescente. Il vestito la sceglie, sottolineando l’assunto animista secondo il quale il rapporto che instauriamo con gli oggetti non è mai solo funzionale, pratico, muto. Ma è carico di proiezioni che provengono da una parte e dall’altra, da noi e dall’oggetto, al quale prestiamo una parte di noi, una parte che ci è cara, che ci riguarda, e che risalta attraverso di lui. Quando la diva, ribattezzata Divina, sbatte la porta e abbandona la stanza tuonando espressioni immaginarie, il vestito esce letteralmente da sotto il letto dove si era nascosto, rincantucciato, raggiunge la ragazzina, la ricopre e la piccola goccia di sangue che Divina aveva lasciato stillare dal suo dito indice e che era andata a macchiare la seta dell’abito, si trasforma in una decorazione in lana cucita a mano.
Come scriveva Jung, chi si separa dall’infanzia “crede che ciò che non vede non esista più”. Ecco, Alice Rohrwacher è rimasta assolutamente infantile, nel senso più poetico, sublime e sofisticato del termine. Essendo l’infanzia quella porzione privilegiata in cui riusciamo ancora a credere in un altrove, in un mondo dietro al mondo, popolato di fantasmi, regioni ignote, che dunque brulica di impressioni. Infantile, secondo Jung, è il contrario di puerile. È colui che evita di irrigidirsi in pose da adulti e cioè nel cinismo, nella ripetizione di gesti stanchi e inariditi.
Tra i vari cortometraggi commissionati da Miu Miu figura anche il nome di Agnes Varda, tra le più note cineaste della vecchia tradizione della nouvelle vague francese, scomparsa nel 2019. Il suo Les 3 boutons potrebbe, stranamente, averlo diretto proprio Alice Rohrwacher. Anche qui, in un’atmosfera agreste, una ragazza che munge il latte a una capra viene improvvisamente colta di sorpresa dall’arrivo di un pacco. Lo apre e una lunga stoffa di seta rosa si compone in un abito principesco, che sale verso il cielo e resta sospeso nell’aria. La ragazza, imperturbabile, guarda la telecamera e dichiara: «Sono troppo piccola in un mondo troppo grande. Un mondo troppo vecchio». Dopodiché, si intrufola sotto la gonna del vestito. Essa cela una grotta, una cava oscura, al cui soffitto pendono stalattiti e vecchie uniformi da minatore. In fondo, stagliato contro una parete, si trova una versione dell’abito adatto alla sua misura, ma non appena fa per andargli incontro, eccolo trasformarsi in un mucchio di stracci. «Ah, no, non fa per me», commenta la ragazza. «Sono cose buone per le favole».
Infatti, uscendo dalla grotta, riemergendo alla luce, si unisce a un gruppo di compagne che incedono lungo un sentiero, dirette a scuola: «Combatto per il diritto di studiare. Voglio scegliere quella che è la mia vita». Sottintendendo che la discesa nell’inconscio, nelle sue zone in ombra, è un passaggio che costringe a prendersi la briga di diventare se stessi. Dopo si è senz’altro diversi, mutati fin nelle fondamenta. Ma soltanto chi continua a sostare tra i due universi, tra il razionale e l’irrazionale, tra il reale e l’immaginario, può procedere senza paura di smarrirsi, di perdersi nel corteo delle persone adulte.