Il ricino è una pianta molto modesta, senza pretese. Non ha neanche uno di quei nomi latini altisonanti, che mettono soggezione: Ricinus communis. Però ha una sua dignità esistenziale: è l’unica specie del suo genere. Non ha famiglia: in parole povere, conduce una vita solitaria, da single per l’appunto. Per lo meno, tassonomicamente parlando. S’intende, per famiglia ristretta. Quella allargata risponde al nome di Euforbiacee, ed è decisamente molto allargata: più di seimilacinquecento specie in duecentoventisette generi, diffuse a qualunque latitudine, con qualunque clima e in un vasto assortimento di assetti: liane, succulente, erbacee e chi più ne ha più ne metta. Dall’albero allo stelo, le euforbie sono piante versatili, adattabili, stanno dignitosamente ovunque, tranne che nell’Artico. Hanno una nomenclatura vastissima, un’epopea a sé.
Tra le euforbiacee più comuni per noi, quelle che ci capitano spesso inavvertitamente sotto gli occhi e non sappiamo affatto che di una euforbiacea si tratta, ci sono la manioca, il caucciù e pure quella che si è meritata l’appellativo di pulcherrima ed è comunemente nota con il nome di “stella di Natale”.
C’è qualcosa di magico, o anche solo tremendamente accattivante, nel lessico delle piante. Non il loro, che probabilmente non conosceremo mai, ma quello che l’umanità usa per definire, descrivere, raccontare. Specie, tribù, famiglie, generi, e poi l’anatomia delle piante, i loro apparati, il modo in cui vivono e si riproducono, i colori che esprimono: tutto ha un nome, e sono nomi quasi sempre così belli che ci piacerebbe usarli per noi, farli nostri, avere anche noi un ovario tricarpellare, un ciazio, stami, infiorescenze, stipole e tante altre cose così.
In questa numerosa famiglia delle euforbie, il ricino è communis, come dice il suo nome latino, ben adattabile anche lui come il resto della famiglia ad ambienti e climi diversi. Ma è anche unico nel suo genere, un po’ speciale e amante della solitudine, se non altro di quella tassonomica. Ma chissà, forse anche di altri tipi di solitudine.
Se ne sta per conto suo, ed è proprio così che spesso succede anche nella vita, non solo nelle classificazioni botaniche. E come ogni amante della solitudine, ha anche grande capacità di adattamento. Dove il clima glielo permette, diventa una pianta perenne “con foglie alterne, palmate e lobate, infiorescenze in grappolo, frutti in forma di capsula di colore dal verde al rosso, con grossi semi”. In Africa tropicale è capace di esprimersi con un albero alto fino a dieci metri, anche se pure da quelle parti è solitamente più basso – due o tre metri, non di più. Altrove è soltanto una pianta erbacea o arborescente, caduca o meno a seconda del freddo che fa.
È un po’ come tutti noi siamo: mutevoli, adattabili eppure singoli. Mai uguali agli altri, ma neanche a noi stessi. Anche David Ben Gurion era quello che era ma era anche quello che le circostanze, gli ideali, le speranze e le necessità gli imponevano. Padre della patria, Primo Ministro, voce della storia che cambiava così da un giorno all’altro, e poi compagno di kibbutz. Solo laggiù, in fondo, è diventato una pianta perenne, un albero d’alto fusto con delle radici profonde che scendevano e scendono nel suo arido deserto e lo rendono cosa viva.
E io, se proprio devo pensare a quel che sarà di me dopo la mia morte, m’immagino la soluzione che ho visto tempo fa affacciarsi sul mio computer: una grande capsula, grande molto più degli ovuli di olio di ricino che avevo preso quel giorno per far nascere mia figlia, una specie di bara contenitore dove ti seppelliscono insieme ai semi di un albero, così ti dissolvi piano piano nella terra e gli fai da concime. E diventi un po’ quell’albero, quando non ci sei più. Per me non è solo una faccenda ecologica, di riciclo ed economia sostenibile (prima o poi smettiamo di produrre rifiuti e lo diventiamo). È proprio che mi sembra molto bella, questa soluzione. Elegante. Quasi confortante, con il beneficio d’inventario del fatto che la morte è brutta, sempre e comunque. È sempre una tremenda interruzione.
Da “All’ombra del ricino” di Elena Loewenthal, Aboca edizioni, 154 pagine, 16 euro