Sono stati due giorni disastrosi per il governo Meloni sul fronte giudiziario: erano cominciati con un ministro che giurava falsamente al Parlamento di non essere neanche indagato e si sono conclusi con l’aggiunta di un sottosegretario formalmente imputato di violazione del segreto di ufficio e che deve affrontare il processo negli uffici giudiziari alla cui amministrazione deve istituzionalmente sovrintendere. Due casi di evidente conflitto di interessi.
Come prevedibile sul caso Santanchè si è fatta la solita cagnara giocando su principi assai nobili come la presunzione di non colpevolezza fingendo di ignorare, forse per pura incultura istituzionale, che la vera questione non riguarda i reati presunti ma fatti concreti incompatibili con il decoro che un rappresentante dello Stato deve avere.
È tutto da dimostrare che Santanchè e la sua corte di aristocratici ed imprenditori-finanzieri veri o farlocchi abbiano commesso dei reati, ma ciò non ha la minima importanza di fronte a due condotte inaccettabili. La prima riguarda il mancato pagamento della liquidazione ad alcuni dipendenti per somme che la senatrice Santanchè è adusa a spendere per qualche festa o in un fine settimana di meritate vacanze (venti, trentamila euro). Sono somme modeste per un imprenditore «di successo»,categoria nella quale il ministro con qualche esagerazione si iscrive, ma sono l’investimento di una vita per i suoi lavoratori, oggi a spasso.
Ed è inaccettabile (lo dico a qualche garantista immaginario non in grado di afferrare il punto) che Santanchè come imprenditrice abbia legittimamente percepito oltre due milioni di «ristori covid» grazie a uno stato di emergenza che ella contestava come «illiberale» e «inutile» senza ritenere di utilizzarlo per garantire i diritti dei suoi dipendenti.
Il secondo profilo, forse più grave, è la erronea comunicazione all’assemblea dell’inesistenza di un procedimento a suo carico mostrando il certificato dei carichi pendenti. I suoi avvocati avrebbero dovuto spiegarle che senza una formale contestazione di reato il certificato in questione non riporta nulla. E infatti secondo quanto riportato dalla stampa Santanchè è iscritta da ottobre nel registro delle notizie di reato, una circostanza cui il codice non connette affatto conseguenze ed adempimenti particolari come inviare avvisi.
Spesso la classe politica gioca su questo punto, ma la realtà è che si può essere indagati senza ricevere avvisi di garanzia sino alla richiesta di rinvio a giudizio. Vero è invece che essendo decorsi sei mesi dall’iscrizione l’indagato deve ricevere un altro tipo di notificazione: la richiesta di proroga delle indagini da parte del Pubblico ministero. Per chi è appassionato della questione magari sarà utile sapere se ciò è avvenuto e se eventualmente il ministro sia stato elusivo anche su questo.
Di penalmente rilevante c’è ben poco, ma sia concesso dire che il dibattito parlamentare con toni da azzeccagarbugli sul significato di un avviso di garanzia è stucchevole e dimostra quanto ancora la classe politica sia culturalmente subordinata alla magistratura, altro che autonomia del Parlamento. L’indipendenza consiste nella capacità che il Parlamento deve avere di valutare il senso politico della condotta di un suo membro, non dalla volontà della magistratura. Ed è inutile prendersela stavolta con i procuratori, che addirittura sono stati così cauti da segretare la notizia di reato.
Ad aggravare la situazione è giunta la notizia che il giudice delle indagini preliminari di Roma ha respinto la richiesta di archiviazione dell’accusa di violazione di segreto di ufficio a carico del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove e abbia richiesto (fatto non frequente) che il Procuratore della Repubblica lo incrimini formalmente del reato di aver fornito scientemente al collega di partito Donzelli una notizia riservata sui colloqui carcerari dell’anarchico Alfredo Cospito.
Come si ricorderà, sulla base del rapporto trasmesso da Delmastro, Donzelli aveva sferrato un attacco con accuse di connivenza ad alcuni parlamentari del Partito democratico in visita all’anarchico, imputato di fatti di terrorismo, durante lo sciopero della fame che lo stesso aveva condotto per protestare contro l’applicazione del 41 bis.
Con una qualche inaspettata e insospettabile generosità, la procura di Roma aveva ritenuto che il sottosegretario, giurista di chiara fama, potesse ignorare che la relazione fosse un atto riservato, ma il giudice, con qualche ragione, non è stato dello stesso avviso e ha ritenuto che servisse un processo.
Delmastro è dunque, di fatto, non un semplice indagato ma tra qualche giorno sarà un formale imputato di cui verrà richiesto il rinvio a giudizio, condizione, diciamo, più “avanzata” e grave di quella della Santanchè. Ma il punto, diciamolo subito, non sarà la sua responsabilità penale bensì se sia istituzionalmente corretto che un sottosegretario alla Giustizia possa presentarsi ancora in carica davanti ad un giudice verso cui il suo ufficio in teoria un domani potrebbe avviare un’azione disciplinare come ha fatto il ministro Carlo Nordio ad esempio contro i giudici che hanno concesso gli arresti domiciliari ad Artem Uss, il manager russo sospettato di spionaggio e poi eclissatosi.
Delmastro è un bravo avvocato e capirà da solo: se non lo farà vi è da augurarsi unicamente che non si assista al solito indecente balletto. La presenza silenziosa di Alfredo Mantovano sottosegretario alla presidenza dovrebbe dare garanzia che prevarrà anche nel governo Meloni la cultura delle istituzioni e Delmastro si dimetta. O no?