Futuro in fiammeL’eco-ansia non è un capriccio della Gen Z

Secondo la nota psicoterapeuta Caroline Hickman, si tratta di un «incapsulamento degli impatti emotivi, cognitivi e fisici causati dalla crisi climatica». Il dibattito scientifico su questo tema, che nell’agenda mediatica italiana occupa una posizione ambigua, è ancora aperto. Ma il problema c’è e riguarda tutti, non solo gli adulti di domani

AP Photo/Michel Euler

L’eco-ansia è una delle grandi assenti all’interno del dibattito pubblico italiano. E, quando ci entra in punta di piedi, viene trattata come un lusso occidentale o, peggio ancora, il capriccio di una gioventù tartassata di critiche, inascoltata e mai elogiata per una sensibilità ambientale che le generazioni passate non avevano. 

È successo anche questa settimana, quando Marco Furfaro, capogruppo in commissione Affari sociali del Partito democratico, ha osato menzionarla durante la presentazione della legge regionale pugliese sullo psicologo di base. Nell’elencare i motivi dietro l’aumento dei disturbi psicologici nel post-pandemia, il deputato dem – attingendo dall’Axa mind health report 2023 – ha parlato di «incertezza sul futuro, gender gap, cambiamenti climatici e solitudine».

Secondo Furfaro è necessario istituire lo psicologo di base anche per affrontare l’eco-ansia, non solo per affrontare l’eco-ansia. Tuttavia, le sue dichiarazioni sono state (volutamente) travisate soprattutto dalla stampa più vicina alla destra di governo, anch’essa favorevole all’istituzione dello psicologo di base. «“Uno psicologo per l’eco-ansia”. La proposta no-sense del Pd», è il titolo di un articolo del Giornale a firma di Lorenzo Grossi. «E i democratici s’inventano lo psicologo per il clima», scrive invece Libero. 

In Italia è molto raro che un politico si esponga per citare o approfondire il rapporto tra salute mentale e cambiamenti climatici, mentre negli Stati Uniti la vicepresidente Kamala Harris non esita – nonostante le pronosticabili critiche da parte dei repubblicani – a parlare pubblicamente di «climate mental health»

L’eco-ansia, nonostante sia un fenomeno relativamente recente (il termine è stato “coniato” nel 2017), esiste. Nel primo studio sul tema, l’American psychological association (Apa) l’ha definita come la «paura cronica della rovina ambientale». Una delle ricerche più esaustive è stata condotta da Liz Marks e Caroline Hickman dell’Università di Bath. Il titolo è emblematico: «Eco-distress is not a pathology, but it still hurts», ossia «L’eco-angoscia non è una patologia, ma fa ancora male». Secondo loro non siamo davanti a una vera e propria malattia, bensì a un «incapsulamento dei complessi impatti emotivi, cognitivi e fisici causati dalla crisi climatica». 

Gianluca Castelnuovo, direttore del Servizio di psicologia clinica e psicoterapia dell’Istituto Auxologico Italiano, scrive che il problema «può derivare da una serie di fattori, come ad esempio la preoccupazione per i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, l’inquinamento e la distruzione degli habitat naturali» e che «può manifestarsi in diversi modi, tra cui ansia e stress, tristezza, senso di impotenza, disperazione e senso di colpa». Alla base dell’eco-ansia c’è la solastalgia, una forma di angoscia emotiva o esistenziale che sorge dagli impatti negativi della crisi climatica sui luoghi della nostra quotidianità. 

Tuttavia, secondo Caroline Hickman, l’eco-ansia può anche essere associata alla «speranza, all’ispirazione, alla cura e alla compassione», quindi non è scontato che generi solamente emozioni negative e non proattive al fine di affrontare l’emergenza climatica. Intervistata da Altraeconomia, la psicoterapeuta britannica ha aggiunto che «dovremmo preoccuparci di più per coloro che presentano degli aspetti patologici di evitamento» e «che non provano nessun tipo di ansia a fronte della crisi climatica». Va poi specificato che l’ansia climatica viene innescata dalla paura di eventi climatici estremi futuri, che devono ancora verificarsi. 

Il dibattito a livello accademico è ancora apertissimo, e non è un caso che – per fare un esempio recente e vicino a noi – l’Ordine degli psicologi del Veneto abbia organizzato un seminario dal titolo “Come affrontare l’eco-ansia. Strategie di resilienza di fronte all’emergenza climatica”. 

Cosa significa avere quindici o vent’anni e leggere le previsioni della comunità scientifica sul mondo nel 2030 e nel 2050? Cosa significa vedere la temperatura media globale sempre più vicina ai +1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, le emissioni in salita e l’inquinamento atmosferico che causa novantamila morti premature l’anno? 

La risposta più accurata può essere fornita solo dai giovani, che però non sono gli unici soggetti ad essere “colpiti” dall’eco-ansia: «Da quanto sono scoppiati gli incendi in Nord America, non credo di aver avuto un solo cliente che non abbia affrontato la crisi climatica durante le sessioni settimanali di terapia. Sembra esserci una consapevolezza collettiva sul fatto che questo è l’inizio di una nuova normalità», ha detto al Guardian Wendy Greenspun, psicologa e consigliera della Climate psychology alliance, un’associazione focalizzata sulle risposte all’ansia dovuta alla crisi ecoclimatica. 

Secondo l’Istat, la preoccupazione per i cambiamenti climatici, indicata nel 1998 dal 36,0 per cento degli italiani, è salita al 56,7 per cento nel 2022. A livello globale, mostra lo studio “Global burden of diseases” condotto presso l’Università di Washington, negli ultimi trent’anni la diffusione dei disturbi psicologici connessi alla crisi climatica è aumentata del cinquanta per cento. Ne soffrono più di duecentottantaquattro milioni di persone nel mondo. 

I massimi esperti del tema ritengono che sia sbagliato patologizzare l’eco-ansia, e che essere preoccupati o angosciati a causa della crisi climatica sia una razione ragionevole e prevedibile a una situazione pericolosa. In un articolo su The Conversation, Matthew Adams dell’università di Brighton scrive che queste «risposte emotive complesse» sono del tutto normali, e che «dobbiamo stare attenti a trattare l’eco-ansia come una caratteristica individuale». 

Quando lo facciamo, aggiunge il professor Adams, il problema si riduce alla singola persona e alla soluzione per risolverlo, a volte coincidente con «l’uso di farmaci». Inquadrando l’eco-ansia in questo modo, scrive l’esperto, «si crea una forma di negazione collettiva che non si concentra sulla ricerca dei modi per gestirla». 

Qualche esempio citato dall’autore? Individuare le risposte emotive complesse e rendersi conto che sono una «sana reazione psicologica» a un problema come la crisi climatica; condividere le proprie preoccupazioni con gli altri; riconoscere che è normale sentirsi sopraffatti; attivarsi nel concreto per dare sollievo al pianeta tramite azioni individuali o forme di attivismo. Dopodiché, se il disagio persiste, può essere utile rivolgersi a un professionista della salute mentale.