Erano più di diecimila. Almeno a Milano. Il dato passa di bocca in bocca, viene ripreso dalle testate locali, crea una sorta di eco adrenalinica, di onda magnetica dai risvolti imprevedibili. Primo, perché per due anni le manifestazioni sono state soppresse a causa dell’emergenza sanitaria. Un corteo di massa di queste proporzioni non si vedeva dal 2019. Secondo, perché ci troviamo a un passo dalle elezioni. A differenza di un tempo di emergenza climatica si è parlato, certo. È stata citata, sono state avanzate delle proposte. Se ne è discusso. Ma la sensazione generalizzata è che sia una semplice strumentalizzazione per corteggiare i giovani e appropriarsene il voto, oltre che il rapido e forzato tentativo di mostrarsi al passo con le urgenze contemporanee predicate a gran voce a tutte le latitudini geografiche. Altrimenti, perché i ragazzi scesi in piazza oggi erano così arrabbiati? Lo striscione più lungo recava la scritta “Agenda climatica ora”. Come se, appunto, le iniziative dei leader dei principali partiti non fossero neanche lontanamente sufficienti ad affrontare quella che si rivelerà e si sta già rivelando la peggiore catastrofe naturale della storia umana.
E purtroppo, l’unico modo per arginarla davvero è mettere in discussione l’apparato socioeconomico fin nelle sue fondamenta. Si può poi discutere del come, del quando e dei mezzi a disposizione. Ma ciò che i vertici decisionali dell’intero pianeta rifiutano ostinatamente è una correzione della funzione dell’uomo all’interno dell’ambiente che abita e dei rapporti che intesse con ciò che lo circonda.
Dunque, parlare di transizione energetica non basta. A partire da Largo Cairoli la manifestazione si snoda in tutti i punti nevralgici del centro cittadino, battuti dai ritmi frenetici della settimana della moda, e termina di fronte al Palazzo della Regione. Si legge a voce alta un testo dell’ex presidente degli Stati Uniti Jim Carter del 1979, che già all’epoca e piuttosto bizzarramente per l’orientamento liberale della nazione, citava la necessità del limite come baluardo della battaglia ecologica. «Siccome andiamo a votare, non dobbiamo chiedere ai partiti cosa hanno intenzione di fare. Ma cosa hanno fatto. Questi problemi si conoscono da cinquant’anni. Siamo prigionieri di questo sistema», dice lo speaker.
Riccardo Marrone frequenta l’ultimo anno di liceo ed è un attivista di Tsunami che, insieme a LatoB, rappresenta la realtà più visceralmente studentesca del movimento Fridays For Future. È curioso come i diritti delle nuove generazioni e la preoccupazione nei confronti dell’ambiente si guardino come i due lati di una stessa medaglia, animati da problemi diversi e tuttavia avvinti da una identica matrice. Quasi tutti i ragazzi con cui ho parlato non sono solo furiosi a proposito dei mancati provvedimenti per il clima, ce l’hanno con le università e le scuole assenti e distratte, mancanti di informazione, di educazione a un pensiero critico, che aiuti insieme a costruire e a decostruire, anzi, più spesso complici dello stesso dispositivo mortifero che abbandona a logiche alienanti e ingiuste. È di pochi giorni l’ennesima morte di un diciottenne durante uno stage previsto dall’alternanza scuola-lavoro. Sventolano diversi cartelli in memoria dei tre ragazzi deceduti nell’ultimo anno, alcuni indossano la tuta e l’elmetto da fabbrica, si stendono in mezzo alla strada per protesta.
«Il mio primo lavoro prevedeva trecento euro, in nero», mi racconta Riccardo. «La questione climatica è ovviamente connessa a questa realtà. Trovo assurdo che la gente non scenda in piazza. Ciò che sta succedendo ormai è evidente. Perfino i miei genitori se ne sono accorti, questa estate», aggiunge. «Pago quattrocento euro all’anno di abbonamento ai mezzi pubblici per andare e tornare da scuola, e abito a venti chilometri. È troppo. È scandaloso».
Gli studenti sono la categoria più esposta a un futuro deforme, contratto, privo di prospettive a ogni angolo del loro esistere. Lo psicoanalista e filosofo francese Miguel Benasayag parlava di un lento patire, di passioni tristi.
«Non so se un domani potrò andare a scuola. Non so se riuscirò a rivedere Venezia».
Andranno a votare perché «è giusto, doveroso», anche se Fridays for Future si mantiene da sempre fieramente apolitico. È una presa di posizione paradossale perché le decisioni, che piaccia o no, sono pur sempre prese da chi governa. Domandare a gran voce il trasporto pubblico gratuito, l’agevolazione a un’energia pulita che non preveda centrali nucleari o rigassificatori, e poi tenersi fuori dall’arringa politica, per quanto depauperata e corrotta, rischia di contribuire all’antico presupposto secondo cui tutto deve cambiare affinché niente cambi.
«Vogliamo una decentralizzazione del sistema energetico. L’energia deve tornare un bene comune», mi elenca Jacopo Ciccoianni, esponente del movimento. « E poi un ripensamento della logistica dei beni di prima necessità, perché la maggior parte di essi provengono dall’altra parte del mondo e non è sostenibile. Siamo a favore di uno stile alimentare di questo tipo. Mangiare avocado quando la sua produzione contribuisce a deforestare l’Amazzonia e arriva fino a noi attraverso viaggi estremamente inquinanti non è sbagliato, ma non è neanche necessario. La maggior parte di noi sono vegani».
Lui e i suoi compagni si sono opposti anche alla Politica agricola europea (Pac) perché prevedeva uno sfruttamento dei terreni talmente tanto intensivo da penalizzare i nutrienti contenuti al loro interno e ai monopoli alimentari, come quello dei semi, selezionati dalle stesse logiche massive – rendere il più possibile nel minor tempo possibile.
Eppure, domenica non si recherà alle urne. Non si vede rappresentato, non sente di credere neppure alla democrazia rappresentativa. Il parametro su cui si fonda l’intera narrazione del presente attuale non lo riguarda, si rivolge a forme di democrazia diretta in cui i poteri decisionali vengono ripartiti verso il basso.
«La nostra rabbia è diretta soprattutto nei confronti delle università», intervengono i ragazzi del gruppo Statale a Impatto Zero della Statale di Milano. «Si dovrebbe discutere di sostenibilità in tutti i corsi di laurea, dovrebbero inserire dei crediti obbligatori. E invece si comportano come aziende, che ti spingono e ti sollecitano unicamente alla ricerca del lavoro economicamente prestante. Senza considerare che la maggior parte dei loro finanziamenti provengono da compagnie ed enti assolutamente antietici e da grosse aziende che lucrano sui combustibili fossili».
L’angoscia è sottile, latente, pervasiva. Alcuni la chiamano ecoansia, per quell’irresistibile e diffusa mania contemporanea di etichettare i fenomeni e attribuire loro un’immediata problematicità. La verità è che è impossibile non essere investiti da uno senso di panico se si pensa che le sorti dell’umanità verranno decise nei prossimi dieci anni soltanto. Poi, il caos. L’estinzione, forse. Quanto progressiva non si sa. Sicuramente subentreranno rivolte, inondazioni, migrazioni e un’invivibilità di fondo che costringerà tantissimi a dimenticarsi come si esisteva prima, in un altrove lontano.
«Ho paura che ciò che di bello esiste adesso, verrà perduto» dice Alice. «Gli ecosistemi stanno già scomparendo».
Proprio durante la giornata di oggi, un attivista per il clima si è dato fuoco alla Laver Cup di Londra. Non è una novità che le grandi correnti ideologiche conducano ad azioni estreme. Il punto, però, è che la disfatta ambientale non ha nulla di ideologico. È una evidenza scientifica creata, prodotta e alimentata dall’uomo a scapito di se stesso. Siamo impantanati a tal punto in uno stile di vita che involontariamente e continuamente peggiora la situazione che i disturbi e le depressioni, anche quando non ricondotte consciamente alla catastrofe imminente, imbevono lo strato sociale, intimo e relazionale a noi più prossimo.
«Ci sono persone che stanno già morendo nei continenti a sud del mondo che per primi pagano le conseguenze del cambiamento climatico», dicono alcuni allievi del Tito Livio che collaborano per l’associazione ambientalista Ouryouth4theclimate. «Siamo privilegiati, e ancora non ce ne rendiamo conto ancora. Ma arriverà anche qui. Sì, abbiamo ansia». Sono tutti vegetariani o vegani, comprano vestiti usati, o almeno ci provano, sono sensibilizzati, informati, impauriti. E non hanno ancora la maturità. C‘è una cosa di cui lo Stato italiano può andare fiero.