Sapete bene come certe idee restino incollate in testa. Non vanno via, riemergono a casaccio, di colpo ti tornano davanti, in primo piano. Non è detto che per forza siano cose ad altissimo tasso di drammaticità – per carità i fotogrammi delle decapitazioni, gli aerei nelle Torri, i camion dell’esercito nella notte sappiamo tutti richiamarli alla coscienza, ma più che altro stiamo attenti a tenerli sepolti, perché non c’è niente da aggiungere, semplicemente trascendono.
Altre immagini invece vanno da sole. Per esempio, ormai da mesi, capita di seguire con sentimenti contrastanti le gesta dei militanti dei gruppi di mobilitazione ecologista, qui in Italia più che altro quelli di Ultima Generazione, ma anche di altre sigle minori, quando di nuovo colpiscono, s’incollano a un quadro, imbrattano un monumento, colorano le acque delle fontane, bloccano il Grande Raccordo Anulare arrivando a un pelo dal finire linciati dagli automobilisti inferociti.
Guardi e ascolti: le reprimende dei politici, dal paternalistico all’inquisitorio, le cronache improntate al dispiaciuto rimprovero, sul tono del «Che fate? Possiamo capire le vostre buone intenzioni, ma questi metodi sono deprecabili». Poi i fermi, gli arresti, i processi, le malinconiche code giustizialiste, per ribadire che con lo Stato non si scherza, che varcare certe linee di condotta oggi può davvero costare caro. Si segue, si guarda, tra la perplessità e la distrazione – finché i grandi drammi che affollano le cronache scansano gli instant video che hanno immortalato la loro ennesima bravata. Nel frattempo, però, lo scenario si è definito, allineandosi al dettato del «Va bene mobilitarsi, ma di sicuro non si fa così». Scusate ragazzi, ma dobbiamo tirarvi le orecchie, e se volete possiamo elencarvi gloriosi esempi del passato, allorché la protesta sul serio s’ammantò di gloria e potenza. Okay.
Arriva un’altra notizia. A maggio, dopo l’alluvione che sconvolge la Romagna, due attiviste di Ultima Generazione mettono in atto un gesto di denuncia di fronte al Senato della Repubblica: si sfilano le magliette, restano a seno nudo e si cospargono la testa e il corpo di fango, lo stesso fango che gli abitanti di quelle terre stanno provando a combattere. Le forze dell’ordine intervengono, le ragazze vengono trascinate via, offrono la solita resistenza passiva. Le immagini acquisiscono crudezza per la disparità tra l’azione e la reazione, e poi subito si attivano le consuete giaculatorie di rimprovero e riprovazione: cosa credono di fare questi ragazzini, provocando apertamente le istituzioni? Dove pensano di arrivare, oltre una stazione di Polizia, un’identificazione, una denuncia per una serie di reati, un possibile processo, perfino una condanna? Chi si credono di essere, convinti coi loro modesti, occasionali blitz di riuscire a richiamare l’attenzione degli italiani sulla gravità della situazione globale?
Già. Si pensano guerriglieri urbani non violenti, ma finiscono accusati di mero vandalismo e di esibizionismo performativo, bollati come incapaci di produrre crepe nel tessuto sociale, sedotti come sono da un minimo di attenzione mediatica. Nel suo Tg, Enrico Mentana fa il precettore: «Dai, ragazzi, siete ancora in tempo: meno tangenziali occupate, meno monumenti imbrattati e più sana, faticosa militanza».
Eppure, è inutile fingere. Riguardi le immagini delle ragazze inermi davanti al Senato, coperte di fango, portate via. Salgono rabbia e commozione, pulsa un senso di colpevole impotenza: come si fa a dire che non hanno ragione loro, che nonostante tutto hanno questa forza dalla loro parte, anche se sono pochi, intermittenti, confusi, d’improvviso intransigenti, incoscienti. Com’è che sono gli unici che si ha voglia di ascoltare, per quanto siano catastrofici, ipersensibili, per come diffondono un messaggio disperato e chiedano l’impossibile. Ovvero che le stesse logiche governative che li classificano come “eco-imbecilli” prendano presto decisioni remote quanto l’Atlantide, come interrompere la riapertura delle centrali a carbone, cancellare la progettazione di nuove trivellazioni per l’estrazione di gas naturale, procedere a un incremento reale dell’energia solare ed eolica, primi passi per contenere i fantasmi dell’eco-ansia, il cambiamento climatico, i fenomeni atmosferici estremi, l’innalzamento dei mari, la desertificazione, il pianeta che va a puttane.
Il leghista Claudio Borghi li definisce “criminali” e medita una proposta di legge per l’arresto immediato. Matteo Renzi decreta che chi ha imbrattato Palazzo Vecchio è soltanto un vandalo. Perfino Ivan Novelli, presidente di Greenpeace Italia, disapprova le azioni di Ultima Generazione, classificandole come boomerang che attirano l’attenzione provocando un ritorno di opinione negativo.
Poi c’è ressa nei talk show per insegnare come si dovrebbe fare veramente, a costoro che si sono messi nella scomoda posizione di protestare pagando in prima persona. Poco importa se per decenni in Italia si è sparato e ucciso, si è rapito, gambizzato, si è sequestrato, espropriato, stragizzato al seguito di ideologie in progressiva, futuristica metamorfosi. Non importa che tanti di coloro che impugnarono armi e manganelli, spranghe e mattoni, tanti di coloro che li guidavano e li ispiravano, siano gli stessi che adesso scuotono la testa e dicono che la questione è politica, insomma che dovrebbero essere ancora loro a occuparsene, se almeno ci credessero davvero. Perché non c’è ancora nessuno, al di là di chi è sceso in campo, che sostiene questo movimento, che per farsi ascoltare ha capito che deve rendere la protesta insopportabile, provocatoria, perciò impossibile da ignorare. Perché crea disagio in chi ci s’imbatte, e scandalo in chi l’osserva.
Allora chi si credono d’essere questi illusi che sposano un salto di qualità della disobbedienza civile, che vanno oltre gli innocenti cortei di Fridays For Future di appena tre o quattro anni fa (che già sembrano preistoria) e che adesso colpiscono i musei, attaccano i monumenti, mettono su blocchi stradali, si avvicinano alle sedi nevralgiche del potere. Una resistenza che diventa attiva, braccio militante della comunità scientifica irritata dalla miopia della politica. Dicono d’essere l’ultima generazione che può fare qualcosa per determinare il futuro dell’umanità. Pretendono di poterlo fare in meglio, attraverso azioni di disobbedienza civile nonviolenta.
E se poi emergerà un effettivo rischio di derive violente? Come prendere l’ipotesi di un terrorismo di matrice ambientalista? Eppure, gli stessi che adesso lanciano questo allarme provengono da una società che coltivava in sé il terrorismo e la violenza, estreme e folli valvole di un disagio che aveva radici reali, mai del tutto estirpate. Quella che si va sollevando è un’onda d’alleanze attorno alla questione ambientale, a base di resistenza civile e di azioni clamorose, ma nonviolente. E in ogni blocco stradale in cui a centinaia maledicono gli attivisti, ci sono tre o quattro persone che dicono: «Avete ragione, mi state facendo aprire gli occhi».
È questo il vero impegno politico negli anni Venti, non le stanche pagliacciate dei partiti, il gioco delle promesse, la commedia dei ricatti. Questo è scomodo attivismo, teso a creare consenso attraverso il sacrificio del proprio corpo, sopportando che il Palazzo spinga per la repressione, fatto da persone disposte a commettere reati, sperando d’essere ascoltate. Sono “associazioni a delinquere” che citano Gandhi per rendere visibili dei temi all’opinione pubblica, impegnate in battaglie più grandi di loro, eppure risolute nel lanciare il grido, l’invocazione di responsabilità. La domanda che conta non è se costoro siano buoni o cattivi, pericolosi o soltanto fastidiosi, ma perché il governo continui a investire miliardi in combustibili fossili.
Pensateci. O pensate a continuare a non fare nulla, in questo momento. A restare davanti ai video sui social delle ragazze che srotolano uno striscione, si coprono di fango e vengono trascinate via. Liquidate la questione dicendo che dovrebbero andare a lavorare, se nemmeno un dubbio vi sfiora. Chissà perché quelli lì si sono messi in una posizione tanto scomoda? Esibizionisti. E chi si credono d’essere? Poi, magari, una mattina ci ripenserete. Perché se non loro, chi?