La memoria gode della proprietà transitiva, almeno se si pensa a cosa significa fare memoria. Ricordare o, eventualmente commemorare: tutte azioni che ruotano intorno al rapporto tra il passato e il presente, con proiezioni sul futuro. Perché la memoria è anche un lascito per le generazioni che verranno, un dono di conoscenza per chi non c’era (ai tempi dei fatti da ricordare). Poi c’è la relazione personale con la memoria e con quanto possa suscitare l’azione del ricordare sul singolo soggetto. Perché la memoria è soggettiva e ha anche una sua peculiare poetica. Di tutto questo si occupa una mostra stratificata, complessa e multiforme come Dance me to the end of love. Arte contemporanea e poetiche della memoria che il comitato scientifico del Padiglione di Arte Contemporanea di Milano propone al pubblico in occasione del trentennale dall’attentato che distrusse proprio quello spazio espositivo. Proprietà transitiva.
Proprietà poetica: esporre le memorie di nove artisti (più uno cui è dedicata la project room) attraverso le proprie opere d’arte, mentre scorre una linea del tempo a cura dei giornalisti Simona Zecchi e Marco Bova che narra la storia italiana tra il 1992 e il gennaio del 1994, con quell’estate del 1993, per la precisione il 27 di luglio, notte dell’esplosione. Siamo al Pac che ci racconta di se stesso attraverso la storia e la cronaca pubblicata sui quotidiani di quei giorni. Fuori, l’autopompa dei pompieri che riuscì a domare le fiamme, proprio quella utilizzata quella notte, parcheggiata in cortile (fino al 30 luglio). Commemorazione.
Dentro, memorie (al plurale). Pura e semplice memoria in soggettiva, per nove opere dal gusto universale. Si comincia con l’artista israeliana Yael Bartana che presenta Malka Germania, il lavoro che l’ha resa nota al mondo. Tre video prendono tutta la parete disponibile e lo spettatore non può che cedere davanti alla sua poetica della memoria. Onirica, politica, ironica, spirituale nel suo ricordare un passato che diventa presente, nel suo presente carico di passato con un messia donna a cavallo di un asino che percorre la storia. Non arrivare è il suo destino, esserci sempre la sua funzione in abiti bianchi e dita lunghe a toccare la storia degli uomini. È lei la Malka, la regina (in ebraico), la messia appunto, di questa Regina Germania: ne libera i traumi collettivi e racconta quelli di Israele come Stato, ma anche come popolo. Si resta ipnotizzati dal flusso di coscienza visivo che Bartana mette in scena, con tanto di Reichstag che emerge dalle acque del lago nell’area dell’ex aeroporto di Hitler, il Tempelhof.
La memoria è già dolore, aveva scritto Fabrizio de Andrè. Come la musica di Douglas Gordon, nella seconda sala, che mette in scena (con k.364) due video che ritraggono i musicisti polacchi Avri Levitan, violista e Roi Shiloach, violinista mentre eseguono la Sinfonia Concertante K364 di Mozart con l’Orchestra di Varsavia. Due pannelli contrapposti ad alta intensità espressiva con specchi ai lati della sala rendono l’opera musicale completamente immersiva, tanto che il pubblico in qualche modo ci cade dentro riflesso in quelle superfici quasi da Luna Park. Eppure.
Eppure quello è lo specchio di una memoria collettiva narrata nella memoria personale dei due musicisti che compiono da Berlino a Varsavia il viaggio inverso rispetto a quello compiuto dai i loro genitori nel 1939 per fuggire dalla Polonia occupata. Clemencia Echeverrì ci catapulta lungo le sponde di un fiume tumultuoso. Passano vestiti dentro le sue acque e tra i salti delle rapide e si sentono voci disperate che chiamano nomi senza ricevere risposte. È la versione contemporanea della trenodia, quel lamento funebre dell’antica Grecia che si intonava in assenza della salma. E che da nome all’opera, Treno: storia di una sparizione, come tante, nelle campagne colombiane. Maurizio Cattelan espone il suo Souvenir di Milano, opera del 1994: una finta macchinetta fotografica per bambini in plastica, di quelle che una volta venivano vendute come souvenir, appunto. A guardarci dentro, scorrevano le cartoline dei luoghi più significativi, qui invece ci sono le immagini del Pac distrutto.
Giulio Squillacciotti dà voce alla di storia. Storia è memoria? La storia, in generale nasce dallo studio di tre archivi e delle loro abitudini quotidiane. Mentre di vita quotidiana durante la Seconda Guerra Mondiale parlano Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini che mettono in scena le lettere dei nonni di Ottonella, lei a casa con i figli e lui prigioniero politico deportato in Germania, tra canzoni di regime, discorsi del Duce, di Pio X, di Hitler. La guerra nella ex Jugoslavia torna nella memoria della casa dei nonni di Maja Bajevic a Sarajevo, descritta in un cammino che ne disegna la planimetria in un prato vuoto nell’opera Green, Green, Grass of Home mentre Miguel Gomes si immerge completamente nel sogno portendo in scena quattro personaggi in cerca di redenzione attraverso i discorsi inventati di quattro politici europei, Passos Coelho, Berlusconi, Sarkozy, Merkel nel lavoro dal titolo Redepmtion.
Infine, Christian Boltanski. Una versione alternativa di Ultime Notizie, mostra autobiografica che era stata allestita proprio al Pac permette di ragionare sul tempo e sulla memoria. Di sé e degli altri. Della storia che si srotola tra le sale del Padiglione (inclusa una piccola opera di Mario Nigro che avrebbe dovuto esporre al Pac proprio nell’estate del 1993 e una sua opera di grande formato è stata gravemente danneggiata dall’esplosione) per culminare nella project room di Nicola Bertasi dal titolo Like Rain Falling from the Sky, un lavoro sulla guerra del Vietnam tra testimonianze e narrazioni hollywoodiane che hanno però costruito il nostro immaginario. Memoria transitiva.
Che si rafforza nella scelta del titolo: Dance me to the end of love è una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, nata dopo aver ascoltato le testimonianze di sopravvissuti alla Shoah. La memoria. La memoria forse esiste solo al plurale. Ah, dimenticavo: Mario Nigro ora è in mostra a Palazzo Reale. Il pittore doveva esporre per una antologica proprio al Pac e alcune sue opere erano già arrivata nello spazio museale quando fu colpito dall’attentato. Alcune vennero danneggiate, altre distrutte dalla bomba insieme all’edificio. La mostra non venne mai più allestita. Di questa memoria c’è traccia nel lavoro dedicato alla cronaca di quel luglio e agosto milanese di cui si sono occupati, con una tabella sinottica degli eventi che hanno portato fino all’attentato, i giornalisti Simona Zecchi e Marco Bova al Pac.
Palazzo Reale invece apre le porte a Nigro con una personale che conta oltre centoquaranta opere realizzate tra il 1945 e il 1992: la più grande retrospettiva mai vista. Ci sono opere su carta, su tela, tridimensionali e moltissimi documenti, oltre a lavori esposti a diverse edizioni della Biennale di Venezia e alla quadriennale di Roma. Ritmo, forma e tempo sono gli elementi che scandiscono il percorso di questa mostra, diffusa anche nelle sale del museo del Novecento, e il lavoro dell’artista, profondamente immerso nella musica e nel pensiero scientifico da tradurre per mezzo dell’astrattismo. Memoria civile. Memoria di un atto pubblico negato da un attentato. La mostra a palazzo reale si conclude il 17 settembre, mentre quella al Museo del Novecento chiude il 5 novembre.