Bare bio I tabù attorno alle pratiche di sepoltura ecosostenibili

Dal compostaggio umano, che nello Stato di New York è legale da qualche mese, alla cremazione ad acqua: i trattamenti “green” per i defunti stanno aumentando, ma faticano a diffondersi per via dei costi elevati e degli scogli culturali difficili da superare

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Con la firma apposta dalla governatrice Kathy Hochul agli inizi del 2023, New York è diventato uno dei pochi Stati al mondo – insieme a Washington, Oregon, California e, fuori dagli Usa, la Svezia – ad aver introdotto nel suo ordinamento una legge che consente la pratica del “compostaggio umano”. Detta altrimenti, quella tecnica cioè che permette di trasformare i corpi delle persone morte in terriccio, da usare come fertilizzante o per la piantumazione. In che modo?

Per diventare concime, il cadavere subisce uno specifico trattamento. Viene per prima cosa adagiato in un contenitore di acciaio, lungo fra i due e i tre metri. Poi gli “addetti ai lavori” lo ricoprono di materiali organici (tipo fiori, paglia e trucioli) e solo quando è cosparso a sufficienza sigillano e riscaldano la “cassa”. A questo punto non resta che aspettare che microbi e batteri facciano il resto, decomponendo – e trasformando – il corpo in maniera naturale in circa trenta giorni. 

Allo scadere del tempo, gli operatori estraggono il composto ottenuto, polverizzando le ossa – che durante il processo rimangono intatte – e scartando eventuali dispositivi medici (come le protesi). Una volta “setacciato”, i resti vengono fatti essiccare fino a un massimo di sei settimane. Poi il terriccio è pronto, e può essere usato come si farebbe con qualsiasi altro tipo di compost: per esempio per piantare fiori o alberi. Secondo Recompose, un’impresa specializzata nel compostaggio umano con sede a Seattle, ogni corpo produce circa un metro cubo di compost, che «nutre nuova vita» e permette all’individuo di restituire alla terra ciò che le ha “preso” durante la sua esistenza. 

Per chi lo pratica e lo sostiene – e soprattutto per chi può sceglierlo, visto che è legale in pochissime parti del mondo – questo metodo alternativo è decisamente più ecologico rispetto a quelli tradizionali, come la cremazione e la sepoltura. Quest’ultima pratica, ad esempio, prevede tradizionalmente l’utilizzo di bare costruite in legno, un materiale di cui servono grosse quantità, visto che ogni giorno muoiono migliaia di persone. E non è tutto: spesso, prima di essere sotterrate, le bare in legno vengono sigillate con metalli e cemento. 

Materiali, dunque, non biodegradabili, che finiscono a contatto con il terreno. Senza tenere conto poi che le sepolture occupano grandi quantità di suolo. Un “problema” che la cremazione risolve, creandone però di altri. Questo metodo, durante il quale il corpo viene ridotto in cenere, si serve di molta energia affinché la temperatura si alzi fino alla soglia necessaria a bruciare un corpo (tra i seicento e i novecento gradi centigradi). 

Le emissioni di gas serra che ne derivano sono molto alte: il National Geographic stima si tratti di circa duecentosessantamila tonnellate di anidride carbonica l’anno solo negli Stati Uniti, dove la cremazione è piuttosto diffusa. Cifre che il compostaggio umano neppure sfiora, anche se tale metodo, seppur in piccola parte, contribuisce comunque all’inquinamento atmosferico. Va infatti tenuto conto del carburante impiegato per trasportare i materiali necessari – come i trucioli di legno – e dell’elettricità spesa per alimentare pompe e ventole richieste dal processo. 

Nonostante gli evidenti vantaggi in termini ambientali, quando si parla di pratiche di sepoltura green – che non prevedono che la bara venga sigillata con materiali pesanti – c’è un’altra questione che preoccupa i contrari: la salute degli esseri umani. Dubbi che la scienza ha già messo a tacere da tempo. È stata la stessa Organizzazione mondiale della sanità a rilevare che non esiste «alcuna evidenza sul fatto che i corpi possano rappresentare un rischio per la nascita di epidemie, visto che dopo la morte la maggior parte degli agenti patogeni muore nel giro di poco». Tant’è che sulla scia del compostaggio, e riprendendo alcune pratiche utilizzate dagli antichi, il mondo sta accogliendo sempre più favorevolmente l’utilizzo di tecniche di sepoltura più naturali e meno impattanti. 

Fra queste è nota la “sepoltura verde”, una pratica in cui il corpo del defunto, così com’è, viene posto in una bara biodegradabile, fatta cioè di materiali naturali come fibre e legno di scarto non trattato. Questi contenitori si decompongono naturalmente nel terreno, senza lasciare traccia di sostanze chimiche nocive. Una tecnica che diventa ancora più ecologica quando non vi è l’impiego di alcuna bara: in questo caso, il corpo viene coperto con un lenzuolo in fibra naturale, che, come nel primo caso, si biodegrada senza creare alcun danno. 

Ma il metodo che, fra quelli più ecosostenibili, sta avendo più successo – è legale in circa una ventina di Stati, anche se rimane piuttosto costoso e meno rapido – è quello della cremazione ad acqua. La sua diffusione è probabilmente dovuta al fatto che produce lo stesso risultato “dell’originale”, ma con un impatto ambientale molto minore, visto che il corpo non brucia. Il cadavere, al contrario, viene sottoposto ad uno specifico trattamento, che scioglie organi e tessuti. 

Funziona così. Il defunto viene disteso in un grosso macchinario che calcola, in base al peso della persona, quanta acqua e quanto idrossido di potassio sono necessari per completare l’idrolisi. Nel giro di massimo quattro ore, e con una temperatura di circa centocinquanta gradi centigradi, tutto il corpo – eccetto le ossa, che vengono poi polverizzate e restituite ai familiari – dovrebbe sciogliersi completamente. Il residuo di tale processo è un liquido trasparente che può essere smaltito nella rete fognaria senza creare problemi – e all’occorrenza può essere diluito con altre sostanze che lo neutralizzano del tutto: non contiene Dna, e al suo interno conserva solo alcune molecole innocue (come i peptidi). Rispetto alla cremazione tradizionale, l’impatto sull’ambiente è decisamente più basso – ma non assente, visto che va considerata l’elettricità utilizzata dai macchinari.

In ogni caso, Resomation, azienda britannica che produce i macchinari impiegati nel processo, dice che “l’acquamazione” emette il trentacinque per cento in meno di gas serra rispetto a quella classica, soprattutto grazie all’impiego del novanta per cento in meno di energia. 

Tuttavia, a prescindere dai benefici ambientali, non tutti ritengono giusto riservare ai propri defunti trattamenti di questo tipo, considerati dai critici poco rispettosi di chi non c’è più («è come se il corpo umano finisse per diventare un mero prodotto usa e getta», come ha commentato la Conferenza cattolica della California). Anche se in questo momento il nostro Pianeta, per salvarsi, avrebbe bisogno del contributo di tutti (sia morti che vivi), quella culturale è una grossa barriera da superare. 

La stessa che ad oggi, insieme agli elevati costi e alla reperibilità, costituisce uno dei principali ostacoli alla diffusione di tecniche di sepoltura meno invasive e più rispettose dell’ecosistema naturale.

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