Essere o non essere GiorgiaIl dilemma tra identitarismo e compromesso determinerà la longevità di Meloni

La presidente del Consiglio non ha opposizioni che possano impensierirla. Ma se cercherà di far mutare pelle alla democrazia italiana in senso nazionalista e anti-europeista rischia di non durare a lungo

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Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia 

Vincerà Giorgia o Meloni? Prevarrà cioè l’istinto, la formazione, la mentalità di Giorgia l’ex post-fascista o una Meloni premier nazional-popolare, tendenzialmente centrista? Questo è il problema. L’essere o non essere shakespeariano declinato nel concreto della politica, forse della storia, e cioè uscire dal recinto identitario della fiamma missina o restarne in qualche modo impigliata, ecco il dramma di Giorgia Meloni, la sua scommessa, il punto interrogativo sul suo destino. D’altronde lei lo sa: «Ho sempre pensato che la sfida più profonda di chi sceglie la strada della politica sia riuscire a lasciare un segno del proprio passaggio senza rinunciare a rimanere fedele alla parte più pura, solitamente quella che ti ha spinto a impegnarti in prima persona», ha scritto nel suo vendutissimo libro Io sono Giorgia.

Fin dove può spingersi, Meloni, senza «rinunciare a rimanere fedele» a Giorgia? Dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, l’uomo che in vario modo ha tenuto una postura centrale anche se non centrista, tocca a lei occupare quella zona di campo uscendo dalla comfort zone della destra più o meno tradizionale. Lei – Giorgia o Meloni? – la scommessa la vince o la perde esattamente qui, perché non bisogna mai dimenticare che gli italiani, in fondo, non cambiano mai.

Le loro caratteristiche di fondo sono le stesse da tempo immemore, e forse la più duratura e incrostata si può riassumere nella richiesta rivolta al potere di essere lasciati in pace, nella quale richiesta si può nascondere di tutto, la libertà come l’egoismo. E come si può lasciare in pace la gente se non con il gioco, non necessariamente minore, della mediazione, della moderazione, del compromesso, dalla tessitura (tutti ingredienti del famoso “centro”)? E infatti nella storia repubblicana il partito che senza dubbio ha interpretato meglio l’umore degli italiani è stata la Democrazia Cristiana, che ha governato per quasi quarant’anni seguendo un “giusto mezzo” che faceva e non faceva ma soprattutto “lasciava in pace” il popolo, tollerandone i difetti e coltivandone qualche pregio.

Scrisse il grande giornalista Giampaolo Pansa: «La Dc comandava con il pugno di latta nel guanto di lanetta. Il suo regime c’era. Però apparteneva al genere soffice, bonario, segnato da una voracità cautelosa, pronta più alla mancia che al randello…». A quel tempo era possibile. Persino facile. Senza social né tv, il Potere era oggettivamente da un’altra parte. Non è certo auspicabile che si torni alle “mance”. Ma la cultura del compromesso alto e l’inevitabile pratica del pasticcetto basso mantiene una sua attualità, e per ottenere – e soprattutto mantenere il consenso (che è molto più difficile) – servirebbe uno sguardo meno truce, più aperto: ce l’ha, Meloni, questo touch democristiano? Giorgia, cioè la Meloni “di dentro”, certamente no. Ha fatto politica dove le voci erano rauche e i discorsi stentorei, e i segni di quell’apprendistato non se ne vanno via. E invece chiunque voglia governare l’Italia dovrebbe tenere sul tavolo almeno una piccola fotografia della Dc se non vuole entrare in collisione con lo spirito profondo del Paese e quindi, come direbbe Machiavelli, andare verso la “ruina”.

Persino un personaggio fortissimo e potentissimo come Berlusconi “rovinò” quando tese ad esagerare, quasi sempre, lo stesso accadde sull’altro fronte a Matteo Renzi nel 2016 e in misura qualitativamente inferiore a Matteo Salvini quando chiese “pieni poteri” nel 2019. Ecco dunque la questione che Giorgia Meloni ha davanti a sé. Come governare il Paese (che lei chiama la “Nazione” recuperando uno stilema di cento anni fa) marcando una politica di destra senza però impaurire gli italiani spaccando la società in due.

Il suo problema è che essere seriamente conservatori implica una cultura che lei non ha. E infatti non innesterà mai la spina dell’antifascismo, come fa un conservatore vero. La contraddizione è in sé stessa: ritenendo di aver ricevuto il mandato popolare non di governare ma di prendere il Potere per far mutar pelle alla natura della democrazia italiana in un senso oscurantista, nazionalista e sostanzialmente anti-europeo, Meloni si sente in dovere di forzare la sua iniziativa con il rischio, però, di scontrarsi in modo irriducibile con una parte rilevante del Paese.

Il problema nasce da una lettura distorta del risultato delle elezioni del 2023 che non hanno dato carta bianca alla giovane leader della destra ma un mandato a governare dopo gli anni del populismo appena appena incrinati dalla sapienza “tecnica” di Mario Draghi, messo però da parte un po’ da tutti i partiti che volevano riprendersi il maltolto, cioè il potere. E così ha finito per imporsi questa giovane leader che viene dal Msi, cioè dalla realtà politica informatasi al ricordo del Ventennio, e questo in un certo modo pesa ancora nella sua istintiva caparbietà ad andare a testa bassa, nella sua prosa pesante, nell’invincibile senso di rivalsa.

Il risentimento di Meloni è quello dei “neri” tenuti fuori dal potere, dai salotti, dalla cultura, motivo per cui sentono arrivata l’ora della Grande Rivincita sulle ali di una vittoria elettorale che è la scusa per prendere tutto ciò che è possibile prendere: lei la mediazione non sa cosa sia. E infine nessuno ha le prove di una autentica capacità realizzativa della premier italiana. Formatasi alla scuola della politica intesa soprattutto come racconto, è lecito nutrire qualche dubbio sulle sue attitudini concrete e sulla sua sapienza tecnica. È un problema dei politici italiani, con qualche eccezione. Sarà capace di “mettere a terra” i progetti legati al Piano di ripresa e resilienza? Perché di lì non si scappa. Non bastano i comizi. Le cose o le fai o non le fai, e ci sarà un giudice a Berlino, cioè a Bruxelles, per valutare i risultati.

Ecco allora il mix potenzialmente micidiale che potrebbe addensarsi sul cammino di Giorgia Meloni: una divisione del Paese e una bocciatura europea. I mercati ne trarrebbero le conseguenze. Dall’altra parte lei ha un vantaggio che pochi altri hanno avuto: non avere avversari al momento spendibili per un’alternativa, né all’opposizione e nemmeno all’interno della maggioranza (dove però tutto è sempre possibile). Basterà? Se prevale Giorgia, la parabola prima o poi è destinata a chiudersi male. Se per miracolo vince Meloni allora la sua destra più conservatrice che fascista può sperare di andare avanti nelle acque sempre increspate della politica italiana. Per ora, è in mezzo al mare.

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