Marocco ExpressMarrakech è la culla di un nuovo artigianato cosmopolita

Alla scoperta di quattro realtà marocchine, fuori dai soliti cliché, dove la modernità e la radicalità, ma anche l’integrazione, tracciano la mappa del design contemporaneo

Alcuni dettagli dello shop Jajjah: il concept store del fotografo Hassan Hajjaj a Marrakech, nella zona di Sidi Ghanem

«Questa è la Bushwick del Marocco». Samir LanGus, musicista marocchino trapiantato a New York, descrive così il quartiere di Sidi Ghanem, a Marrakech, mentre visita il nuovo locale inaugurato dal suo amico Hassan Hajjaj, quello che tutti conoscono come «l’Andy Warhol» nazionale.

Il polo industriale a nord della città negli ultimi anni si è popolato di laboratori di design, atelier di stilisti e gallerie d’arte e fotografia. La piazza Jemaa el-Fna, con le infinite contrattazioni tipiche del mercato più autentico e gli spettacoli di serpenti, dista circa otto chilometri. Ma qui i colori della medina hanno il volto nuovo della contaminazione con artisti arrivati da mezzo mondo. Una nouvelle vague dell’artigianato, su cui il governo di Rabat ha deciso di puntare, tanto da dedicarle un ministero e un talent show sulla tv pubblica. In tutto il Paese le imprese sono oltre 300mila, con più di 9.200 cooperative.

Il fotografo Hassan Hajjaj, trasferitosi a Londra da bambino e tornato in Marocco da adulto, a Sidi Ghanem ha creato da poco “Jajjah”, uno spazio a metà tra sala da tè, galleria d’arte e negozio. Sulle pareti campeggiano i suoi inconfondibili scatti che ritraggono persone con outfit colorati e accessori kitsch. Le sedie sono cassette da frutta e il simbolo musulmano della mano di Alo rivisitata si ripete dai cuscini ai contenitori del tè. «Per incrociare Hassan a Marrakech, bisogna essere fortunati», dice Samir. Ma in tanti arrivano nella periferia di Marrakech per visitare la sua nuova creazione e passeggiare tra i laboratori che ricordano i quartieri più cool di New York o Berlino.

Il primo artista straniero a stabilire a Marrakech la sua seconda casa fu Yves Saint Laurent a metà degli anni Sessanta. Oggi, attorno al museo dedicato allo stilista, si sono moltiplicati showroom e concept store. La visione del designer parigino e il suo amore per questa terra hanno fatto da apripista. I titolari dei negozi spesso sono stranieri che qui hanno creato le loro imprese anche grazie alla burocrazia semplificata. Altre volte sono marocchini, figli d’arte o diplomati nelle locali scuole di design. Ma la produzione e la manodopera sono sempre, rigorosamente, nazionali. 

“Le nostre mani, il nostro tesoro”, è stato lo slogan della prima fiera dell’artigianato che si è svolta a dicembre 2022. «Mani che in molti casi sono di donne, che nell’artigianato hanno trovato un importante sbocco occupazionale», spiega Tarik Sadik, general manager della Maison de l’Artisan. A Sidi Ghanem ha stabilito il suo showroom anche Chabi Chic, marchio ideato dalle parigine Vanessa Di Mino e Nadia Noël. La prima laureata in Architettura, la seconda esperta di commercio. «Abbiamo creato il brand nel 2013, cominciando con una linea di stoviglie», racconta Vanessa. «All’inizio c’erano numerosi artigiani che lavoravano con noi. Oggi ce n’è solo uno, che abbiamo accompagnato in un percorso di crescita. Gli operai prima non avevano tutele e contratti. Oggi ci sono trenta persone assunte». 

Chabi Chic

Sono cinquantasei, invece, i dipendenti del brand di piastrelle Popham Design, ideato nel 2007 dagli americani Caitlin e Samuel Dowe-Sandes. Nella vita pre-marocchina vivevano all’ombra di altre palme, quelle di Los Angeles, dove lui lavorava nel cinema e lei si occupava di comunicazione. Sedici anni fa il loro primo viaggio in Marocco. Finché decidono di comprare una casa nella medina, dove vivono con un labrador e la loro figlia. 

Nascosto in un uliveto, sulla strada per le montagne dell’Atlante, si trova oggi il laboratorio artigianale che mira a rispettare la campagna marocchina, intervenendo il meno possibile sulla terra e, ove possibile, si impegna ad attuare politiche eco-compatibili. «Le piastrelle sono fatte a mano da artigiani locali, con un design ispirato ai motivi tradizionali», racconta Caitlin. «Oggi le esportiamo da San Francisco a Sidney per arredare hotel di lusso, ristoranti e appartamenti». 

Beni Rugs – Le donne iniziano il lungo processo di tessitura di un disegno. Ogni donna (a volte in coppia) lavora su un tappeto dall’inizio alla fine. Può essere necessario più di un mese di nodi

Cambiando rotta e approdando Oltreoceano, l’ago della bussola punta su Robert Wright e Tiberio Lobo-Navia che dal loro appartamento di New York hanno studiato a lungo la tradizione dei tessitori di tappeti prima di trasferirsi a Marrakech per creare nel 2018 il marchio Beni Rugs. «Un brand che unisce design contemporaneo e antica arte del telaio», spiega Tiberio, mentre cammina nello showroom di Tameslouht, villaggio a 30 minuti dalla città. Appena arrivati a Marrakech, «siamo andati alla ricerca di una maalem, una maestra», racconta Robert. «E tutti ci hanno fatto il nome di Rachida Wilkki». Lei, 63 anni, dopo una vita al telaio, stava per andare in pensione. Oggi è responsabile delle sessanta tessitrici di Beni Rugs. Controlla il lavoro fatto e dà qualche consiglio per fabbricare «al meglio» i tappeti che verranno spediti in ogni parte del mondo. 

«Anche se i marchi sono spesso stranieri, c’è una grande attenzione a preservare il nostro know how e il nostro lavoro», assicura il general manager della Maison de l’Artisan. In ogni brand si ritrovano quindi le trame dei tessitori dell’Alto Atlante o le linee dei gioielli Tuareg. Un “tesoro” che diviene ancora più prezioso proprio perché capace di catturare gli sguardi al di là del deserto.

X