Con la morte di Robbie Robertson (Toronto, 5 luglio 1943 – Los Angeles, 9 agosto 2023) scompare una figura leggendaria e uno degli artisti più influenti della musica americana. Autore di composizioni di straordinaria bellezza – capaci di evocare come nessuno prima e dopo di lui (nonostante la sua origine canadese) il carattere mitico della storia americana – membro fondatore di uno dei gruppi più importanti della musica americana – The Band – e musicista eccelso – il suo raffinato stile chitarristico, in parte debitore di quello di Curtis Mayfield, si discostava sensibilmente da quello sturm und drang in voga alla fine degli anni ’60 – Robbie Robertson godette della massima stima e dell’apprezzamento dei maggiori artisti del suo tempo. Bob Dylan, con cui collaborò a più riprese negli anni ’60 e ’70 (gli storici tour del 1965 e del 1974; le altrettanto storiche registrazioni del 1966 e 1967 nel basement di Big Pink, a Woodstock), lo considerava un suo pari. George Harrison, dopo aver ascoltato il primo album della Band (Music from Big Pink), si precipitò a Woodstock per conoscere lui e gli altri componenti del gruppo (del pari musicisti straordinari). Eric Clapton, in crisi con i Cream, cercò di convincere Robbie Robertson, senza riuscirci, a invitarlo a entrare nel gruppo.
Ma facciamo un passo indietro. Robbie Robertson entrò a far parte giovanissimo, all’inizio degli anni ’60, degli Hawks di Ronnie Hawkins, rocker dell’Arkansas, stabilitosi permanentemente a Toronto. Hawkins, grande entertainer e cantante capace secondo alcuni di rivaleggiare con Elvis Presley (era molto amato da John Lennon), non era uomo da grandi ambizioni. Preferiva infatti essere il big fish in a small pond a Toronto piuttosto che imbarcarsi in tour sfiancanti (e pericolosi, basti pensare alla fine di Buddy Holly). Gli Hawks erano una straordinaria fucina di talenti, ma Ronnie Hawkins gestiva la band con mano di ferro, approccio dittatoriale e braccino corto sul piano degli stipendi. Al punto che dopo qualche tempo regolarmente i suoi musicisti si stancavano e andavano a cercare fortuna altrove. Così fu per Robbie Robertson e i suoi “fratelli” (il bassista Rick Danko, il batterista Levon Helm, il tastierista Garth Hudson e il pianista Richard Manuel). Tutti musicisti eccezionali e (tre di loro, Danko, Helm e Manuel) vocalist tra i più grandi della musica americana.
I primi anni senza Hawkins al timone furono di stenti e di mera sopravvivenza. Fino a quando non arrivò una chiamata dal management di un certo Bob Dylan. Era il 1965. Loro di Bob sapevano poco o nulla. Al tempo suonavano blues, rock’n roll, jazz, soul. Tutto meno che il folk prediletto (allora) dal Vate di Duluth. Era il periodo della svolta elettrica di Bob. Aveva bisogno di una backing band e gli Hawks facevano al caso suo. Ebbe così inizio uno dei più straordinari passaggi della musica americana. Nella prima parte dei concerti, Bob si esibiva da solo alla chitarra acustica. Tutto bene, tutto sotto controllo, pubblico rapito e felice. Nella seconda parte, imbracciava la chitarra elettrica e, supportato da Robbie e dai suoi fratelli, si lanciava in interpretazioni lancinanti e a volume (per i tempi) assordante di pezzi vecchi e nuovi. Il che scatenava le contestazioni dei puristi del folk che pretendevano che restasse – vita natural durante – il menestrello di Blowin’ in the Wind. Non capivano o non volevano capire, poveri inetti, che stavano assistendo a una rivoluzione musicale.
Terminato il tour, di ritorno a Woodstock dove risiedeva in quegli anni, Dylan decise di portare con sé i musicisti di quella che tre anni più tardi diventerà The Band. Si incontravano quotidianamente o giù di lì nella cantina di una casa immersa nel verde, colorata di rosa. La chiamarono Big Pink. Lì per la prima volta, sotto l’influenza di Bob Dylan, che sfornava nuove canzoni a getto continuo, i musicisti della Band (Robbie in particolare) iniziarono a loro volta a scrivere pezzi originali. Con esiti immediatamente eccellenti, al punto che – grazie anche ai buoni uffici del potente manager di Bob, Albert Grossman – si videro offrire un contratto discografico dall’importante etichetta Capitol.
Ha inizio così la vicenda discografica della Band – con Velvet Underground e Steely Dan tra i più grandi e influenti gruppi della storia della musica americana. Il primo album, Music From Big Pink, del 1968, è un capolavoro assoluto che mescola i vari generi della musica americana in una sintesi unica e originale. L’album successivo, intitolato semplicemente The Band, è del pari un’opera eccezionalmente evocativa; tra i pezzi più belli e significativi vi è una composizione di Robbie, dal titolo The Night they drove Old Dixie Down, uno straordinario ritratto della Guerra di Secessione vista dagli occhi di un soldato sudista (per questo motivo oggi il pezzo è oggetto di richieste di censura da parte dei soloni del politicamente corretto: no comment). Anche gli album successivi, pur non all’altezza dei primi due capolavori, furono opere di alto livello.
Purtroppo, il rock’n roll lifestyle iniziava a incidere sulla tenuta del gruppo. Manuel, Danko e Helm facevano abuso di sostanze e di alcool e dedicavano sempre minor tempo alla composizione. Robbie si trovava sempre più a dover tirare la carretta da solo. Fino a quando decise di porre fine all’avventura, ma in grande stile. Con un concerto tenutosi il Giorno del Ringraziamento del 1976 al Winterland di San Francisco. Fu un evento straordinario, preceduto da una cena per i fortunati quattromila spettatori e arricchito dalla partecipazione di tutti o quasi gli artisti che nel corso degli anni avevano collaborato in varie incarnazioni con la Band: oltre a Bob Dylan, si esibirono Van Morrison, Muddy Waters, Neil Young, Paul Butterfield, Ronnie Hawkins, Joni Mitchell e altri luminari. Il concerto, immortalato da Martin Scorsese per la posterità in The Last Waltz, rappresenta la degna chiusura di una fase della musica americana che con il senno di poi sconfina ormai nella mitologia. La fine di un’era. Poco più di un anno più tardi, su quel palco si esibirono i Sex Pistols.
Successivamente, Robbie si dedicò a produrre colonne sonore per l’amico Martin Scorsese e, dal 1987, a incidere dischi solisti che, pur non privi di momenti di interesse e di reale ispirazione, non possono essere neanche lontanamente paragonati ai primi due capolavori della Band.
Gli ultimi decenni della sua vita furono amareggiati, oltre che dalla scomparsa per suicidio di Richard Manuel e per morte naturale di Rick Danko, dalle veementi accuse di cupidigia ed egoismo mossegli a più riprese dal suo vecchio partner Levon Helm, segnatamente nell’autobiografia pubblicata da quest’ultimo nel 1993 dal titolo This Wheel’s on fire. Robbie a lungo evitò di polemizzare con Levon Helm (scomparso nel 2012), dopodiché a sua volta cercò di chiarire come stavano effettivamente le cose nella prima parte della sua autobiografia (Testimony) e nel documentario “Once were brothers”, opere dalle quali si evinceva chiaramente, oltre che l’unicità di quella straordinaria formazione, l’importanza cruciale del contributo di Robbie alle fortune del gruppo. Di quella straordinaria Band, oggi, rimane in vita solo Garth Hudson, apparentemente in assai precarie condizioni di salute.
Chiudo con un ricordo personale. Tanti anni fa, con il mio amico Enzo Capua decidemmo di recarci a Woodstock per andare alla ricerca di Big Pink. Con qualche difficoltà riuscimmo ad arrivare. Eravamo fuori, in contemplazione, quando dal basement uscì un uomo. Ci avvicinammo timidamente e chiedemmo se fosse possibile dare un’occhiata all’interno, fu molto cortese e ci fece entrare. Ci disse anche che il suo nome era Donald La Sala, era italo-americano e aveva fatto richiesta di cittadinanza italiana. Il mondo è piccolo. Oggi è possibile dormire a Big Pink per circa seicento dollari al giorno (sono tre stanze da letto). Non è troppo, tutto sommato, considerando che quelle mura sono impregnate della storia della musica americana. Riposa in pace, Robbie. Continueremo ad ascoltare religiosamente la tua musica e quella dei tuoi fratelli.