Negli ultimi giorni, si è parlato molto della decisione della città di New York di imporre una stretta molto forte sugli affitti brevi in città. In realtà, molte delle regole di cui si sta discutendo erano già in vigore, ma erano largamente aggirate dai proprietari di casa, con la complicità delle piattaforme, che di fatto non controllavano la regolarità degli annunci. Tutto è però cambiato quando la città ha deciso di obbligare i proprietari a registrare il proprio immobile, dimostrando di star rispettando le regole in vigore. Migliaia di annunci sono già spariti dalla piattaforma ed è probabile che altri seguiranno nelle prossime settimane.
Ma cosa prevede questa stretta? In pratica, la città ha imposto a Airbnb di tornare a essere quello che era alle origini: una piattaforma in cui affittare per brevi periodi una stanza in più a disposizione in casa. Secondo le “nuove” regole, infatti, potranno essere affittate per meno di trenta giorni solo stanze nelle case in cui l’host è residente e gli ospiti non potranno essere più di due. In pratica, non sarà più possibile affittare interi appartamenti per brevi periodi, una soluzione che aveva permesso di aumentare l’offerta di alloggi turistici, riducendo i prezzi, ma che “tradiva” lo spirito originario di couchsurfing della piattaforma. L’enorme offerta di alloggi turistici aveva però peggiorato di molto la crisi abitativa della città: gli affitti a lungo termine per studenti, lavoratori e famiglie, già molto alti a New York, erano diventati ancora più costosi perché i proprietari di casa avevano maggiore convenienza a mettere il proprio appartamento su Airbnb piuttosto che affittare a lungo termine. Il problema di New York è comune a moltissime altre città turistiche del Mondo, tanto che anche a Barcellona, per esempio, l’affitto breve di interi appartamenti è vietato già dal 2021.
Anche in Italia, naturalmente, il problema del proliferare degli affitti brevi nelle grandi e piccole città turistiche è diventato sempre più importante negli ultimi anni, ma si è fatto molto poco per migliorare la situazione. Un primo problema deriva dal fatto che la maggior parte delle decisioni in campo immobiliare devono essere fatte a livello centrale. Non può quindi la città di Venezia, per esempio, decidere semplicemente di imporre regole simili a quelle di New York o di Barcellona. Eppure il problema degli affitti è molto sentito, soprattutto negli ultimi tempi: perché i governi non fanno nulla? In realtà, questo Governo sta cercando di regolamentare in maniera più efficace gli affitti brevi, ma le indiscrezioni emerse finora fanno acqua da tutte le parti.
Il disegno di legge Santanché, alla cui bozza sta lavorando la maggioranza, vorrebbe imporre una serie di vincoli piuttosto inefficaci sul piano delle soluzioni per l’emergenza abitativa. Il Governo punta infatti a vietare i soggiorni brevissimi, cioè quelli di una sola notte, e di restringere la tassazione agevolata solo a chi mette in affitto al massimo due appartamenti (oggi si possono affittare fino a quattro appartamenti su Airbnb senza dover aprire una partita Iva).
La prima soluzione non fa nulla per togliere dal mercato gli alloggi in affitto breve: i pernottamenti di una sola notte rappresentano solo il cinque per cento del giro d’affari di Airbnb in Italia, è decisamente improbabile che un host possa decidere di smettere di usare la piattaforma solo perché deve affittare per un minimo di due giorni. Nessuna tutela per chi cerca un affitto a lungo termine, quindi, quanto piuttosto un regalo alla categoria degli albergatori, che recupereranno una parte del business perso a causa degli affitti privati brevi.
Anche la scelta di limitare da quattro a due gli appartamenti che si possono mettere in affitto senza essere considerati una “impresa alberghiera” non sembra particolarmente efficace. Innanzitutto, è facilmente aggirabile: basta intestare gli appartamenti a persone diverse, dividendo i guadagni. Il vero problema, però, è che gli affitti brevi e quelli a medio-lungo termine sono tassati allo stesso modo, con la cosiddetta cedolare secca, un’imposta con aliquota unica al ventuno per cento. Questa tassazione agevolata è già problematica di per sé, ma lo è ancor più se si considera il fatto che non è differenziata tra Airbnb e affitti a lungo termine.
Chi gestisce una struttura per gli affitti brevi lo sa: è un vero e proprio lavoro, un’attività di impresa. La gestione delle prenotazioni, anche se facilitata dalle piattaforme, richiede del tempo; chi non usa sistemi di self check-in deve organizzarsi per incontrare e accogliere gli ospiti; le pulizie e la riorganizzazione continua dell’appartamento non sono certo attività occasionali. Sia che si gestisca da soli, sia che si ricorra all’aiuto di addetti alle pulizie, persone che gestiscono le prenotazioni o i check-in, è evidente che si tratti di un’attività di impresa, nel primo caso da autonomi, nel secondo in una sorta di microimpresa. Eppure, agli Airbnb, che possono tranquillamente fruttare 100 euro lordi a notte, è garantita la stessa tassazione che si vorrebbe applicare alla famiglia che ottiene una piccola rendita da un appartamento affittato a uno studente, magari a 400 o 500 euro al mese.
Sia chiaro: chi scrive è contrario alla cedolare secca anche per gli affitti a lungo termine, a meno che il canone non sia stabilito a un livello considerato “equo”, ma applicarlo agli affitti brevi è ancora più grave. Come ci si può aspettare che le persone affittino una stanza a uno studente o a una famiglia a 500 euro al mese, peraltro senza avere tutele legali adeguate nel caso in cui l’affitto non venga pagato, quando potrebbero ottenerne millecinquecento o duemila con lo stesso livello di tassazione? Anche gestire un solo appartamento come alloggio per gli affitti brevi, come abbiamo visto, è di fatto attività d’impresa. Bene ridurre da quattro a due il numero di quelli che si possono affittare come privati, ma la vera soluzione dovrebbe essere quella di eliminare del tutto questa possibilità.
Già questo renderebbe più complicato e meno conveniente affittare con Airbnb e potrebbe spingere una parte degli host a rimettere sul mercato degli affitti a lungo termine il proprio appartamento. Si potrebbe poi pensare di introdurre soluzioni à la newyorkese. Per esempio, anche senza vietare del tutto gli affitti a breve, si potrebbe decidere di permettere l’affitto inferiore a sette giorni solo se l’host è residente nella casa. Una soluzione meno drastica dei trenta giorni di New York, ma che frenerebbe in parte il diffondersi degli affitti brevi.
Una cosa da evitare senza dubbio è il divieto di aprire nuovi Airbnb, come vorrebbe fare il sindaco di Firenze Nardella. Una soluzione di questo tipo cristallizzerebbe tutti i privilegi di chi ha già una struttura di questo tipo, mentre taglierebbe fuori dal mercato chi sarebbe interessato a investirvi. È una soluzione iniqua e che comunque non ridurrebbe la già enorme presenza di Airbnb in città come Firenze. Proprio per la sua iniquità, poi, sarebbe facilmente esposta a ricorsi difficili da vincere, con costi legali e di risarcimento non indifferenti per il Comune,
Trovare un equilibrio tra i vantaggi degli affitti brevi e gli effetti distorsivi sul mercato immobiliare e sull’autenticità e vivibilità delle città turistiche non è per niente semplice. Bisognerebbe però perlomeno provare a imboccare la strada giusta, una cosa che le istituzioni italiane dimostrano di non essere in grado di fare. Forse guardare all’estero potrebbe essere il modo migliore per risolvere o almeno migliorare la situazione.