Iniziare una guerra il giorno stesso dell’Assemblea generale delle Nazioni unite e farla franca: l’Azerbaigian in meno di ventiquattro ore assesta l’ultima spallata, forse quella decisiva, per mettere per sempre la parola fine sulla disputa territoriale del Nagorno Karabakh, e dagli oltre centoquaranta leader radunati nel palazzo non esce che qualche tweet di disappunto.
Martedì mattina le truppe azere hanno sfondato le linee di difesa dell’esercito dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh. Procedono rapidamente nella regione: non solo bombardamenti e droni, come inizialmente si era pensato, ma una vera e propria avanzata sul terreno.
Da Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh, le autorità separatiste hanno invocato l’aiuto prima dell’esercito regolare armeno e poi delle forze d’interposizione russe, ma nessuno è intervenuto. Nella mattina di mercoledì hanno dovuto accettare la firma di un cessate il fuoco che per le aspirazioni di autonomia della popolazione armena è una vera e propria capitolazione.
I punti cardine del cessate il fuoco sono la deposizione delle armi da parte delle forze armate del Nagorno Karabakh, il rientro definitivo di qualsiasi effettivo dell’esercito armeno dalla regione e l’avvio di un dialogo diretto con le autorità azere sulla «reintegrazione» delle popolazioni armene in Azerbaigian.
A sovrintendere l’accordo sono le forze di interposizione russe, quelle che per tre decenni si sono presentate come garanti della sicurezza degli armeni e che oggi invece assistono senza colpo ferire al tramonto dell’epopea del Karabakh armeno.
La rabbia di Yerevan contro le promesse di Mosca traspare nelle parole del segretario del consiglio di sicurezza Armen Grigorian: «Siamo andati con la Russia in Siria, abbiamo votato con la Russia in tutte le istituzioni internazionali, non abbiamo lasciato la Csto (l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, ndr), eppure al momento di proteggerci, ancora una volta ci hanno abbandonato».
Già con l’avvento della rivoluzione di velluto del 2018 e l’arrivo al potere dell’attuale primo ministro Nikol Pashinyan, i rapporti tra Yerevan e Mosca si erano fatti più complicati: il ricorso alla piazza, l’apertura a Occidente, hanno infastidito più volte il Cremlino.
Pashinyan inoltre è il primo leader armeno a non essere originario del Nagorno Karabakh, dove invece la vecchia nomenklatura post-sovietica è tradizionalmente filo-russa. Già dai suoi primi giorni al potere, il nuovo primo ministro infatti ha dato segnali sulla volontà di risolvere una volta per tutte la disputa territoriale.
Si era detto disposto a un un accordo di pace in cui l’Armenia poteva cedere sulla questione della sovranità in cambio di chiare garanzie di sicurezza per la popolazione armena della regione.
Garanzie di sicurezza che però da Baku non sono mai arrivate, anzi, è arrivata una tragica escalation militare nel 2020. Da lì in poi è diventato sempre più evidente che gli azeri non avrebbero accettato condizioni su quella che, per loro, era solo una questione interna.
Alla luce degli eventi di ieri, ai circa centoventimila armeni del Karabakh non rimane che scegliere se scappare in Armenia e abbandonare probabilmente per sempre le loro case, o credere alle promesse di sicurezza e integrazione offerte dalla leadership azera. Le autorità del Karabakh ripetono che le offerte azere sono solo fumo negli occhi e l’obiettivo finale è la pulizia etnica regionale e la de-armenizzazione del Karabakh.
Se le sorti dell’enclave armena sono segnate, quello che rimane da capire è l’effetto che questa crisi avrà invece sull’Armenia. L’arrivo di centoventimila profughi e l’onda d’urto della sconfitta potrebbero colpire duramente il progetto di Pashinyan di portare l’Armenia fuori dall’isolamento regionale e avvicinarsi all’Europa.
Il prezzo di una sconfitta, però, è forse troppo da far digerire alla nazione, e ad aspettarlo al varco di una crisi di piazza c’è proprio Mosca, che in fin dei conti non l’ha mai visto di buon occhio.