Vladimir Putin era convinto di prendere Kyjiv in pochi giorni. Immaginava una vittoria rapida, facile, scontata. Era il 24 febbraio 2022 quando ha dato il via all’invasione dell’Ucraina. A un anno e mezzo di distanza l’unica cosa che Putin è riuscito a dimostrare è che – diversamente da quel che avviene dentro i confini della Russia – quando valica i confini del suo Paese non può piegare la realtà come vorrebbe, come fa la sua propaganda da anni in casa sua.
La struttura di potere di Putin incassa un colpo dopo l’altro. Con il passare delle settimane, poi dei mesi, i territori conquistati sono diventati difficili da mantenere, la mobilitazione di massa annunciata lo scorso autunno ha creato soprattutto malcontento, le sanzioni occidentali hanno infiacchito un’economia già fragile, poi è arrivato anche un tentativo di colpo di Stato da parte del gruppo Wagner guidato da Yevgenhy Prigozhin. In un quadro più generale l’andamento del conflitto ha messo in luce la vulnerabilità delle posizioni militari russe e la fragilità delle convinzioni dell’élite cremliniana.
Questi errori non sembrano aver sconvolto uno Stato monolitico, verticistico, autoritario. Ma l’apparente indifferenza dei vertici di Mosca potrebbe essere ingannevole. «Sta diventando sempre più difficile per il Cremlino nascondere la polvere sotto il tappeto», fa notare Tatiana Stanovaya, fondatrice del centro di analisi R. Politik e Senior Fellow al Carnegie Russia Eurasia Center, dalle colonne di Foreign Affairs.
La guerra sembra aver innescato dei cambiamenti interni al regime di Putin, una mutazione nella percezione che le élite hanno del capo del Cremlino e nell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti della guerra. «Gli errori di Putin e della sua cerchia hanno ulteriormente rivelato i profondi difetti del regime: la classica inclinazione delle autorità russe a sottovalutare i rischi politici sul piano interno, la tendenza a ignorare gli sviluppi a lungo termine di qualunque decisione, l’incapacità di prendersi la responsabilità per i problemi che la guerra sta portando in un Paese già fragile», scrive ancora Stanovaya.
Le crepe nell’impianto autoritario di Putin non sono necessariamente il preludio a un cambio al vertice, tantomeno devono far pensare a una Russia in cammino verso un futuro democratico e liberale. Anzi, potrebbe aprire la strada a un regime ancora più radicalizzato, aggressivo, spietato: l’ordine autoritario e brutale creato da Putin rischia di scivolare sulle sue stesse contraddizioni, diventando sempre più contorto, nevrotico, imprevedibile, quindi pericoloso.
Per tutti gli analisti di politica internazionale il punto di non ritorno è il tentato colpo di Stato della Wagner, benché si sia arenato a duecento chilometri da Mosca. L’idea che il resto del mondo abbia avuto per alcune ore – grazie alle immagini circolate sui social e in tv – gli occhi su un’operazione che avrebbe potuto o voluto provocare un regime change ha esasperato tutte le tensioni interne alla Russia già evidenziate dal fallimento dell’invasione. Solo che le tensioni non spingeranno le élite e la popolazione a fermare la follia putiniana.
L’ammutinamento di Prigozhin, ad esempio, non può essere letto come l’operazione di un pezzo grosso del regime che ripudia l’invasione dell’Ucraina, è anzi una critica dovuta all’insoddisfazione per l’inefficiente proseguimento della guerra. Allo stesso modo, le reazioni agli attacchi dei droni e alle incursioni sul suolo russo non suggeriscono all’opinione pubblica di chiedere il ritiro russo dall’Ucraina – soprattutto perché per gran parte dei russi l’Ucraina viene vista come una minaccia all’esistenza della Russia stessa, per quanto possa sembrare ridicolo.
«La popolazione russa sta diventando sempre più disperata, anti-occidentale e anti-ucraino, e le élite russe stanno diventando sempre più ansiose e irritabili», si legge su Foreign Affairs. «La maggior parte degli alti funzionari, uomini d’affari e politici speravano semplicemente di aspettare la fine della guerra, ma ora si ritrovano ostaggio delle ambizioni di Putin. Gruppi più apertamente aggressivi e potenti come il comando militare o i cosiddetti Chekisti nell’establishment della sicurezza nazionale cercheranno di garantire l’ordine per rafforzare la capacità del regime di portare avanti la guerra, evitare la sconfitta e scongiurare anche il tentativo più incerto di organizzare un altro ammutinamento in futuro».
Nei prossimi mesi il Cremlino dovrà quindi prestare maggiore attenzione ai suoi affari interni, alla frustrazione di tutte le componenenti della sua società, finora secondarie rispetto all’agenda militare. D’altronde dittatura di Putin in oltre vent’anni si è sviluppata soprattutto lungo due direttrici, sul piano interno: la paura e il denaro. «Ha comprato quelli che poteva comprare e ha imprigionato o ucciso quelli che non poteva», ha scritto Thomas Friedman sul New York Times qualche settimana fa. Ma nell’ultimo anno e mezzo quell’aura di invincibilità che aveva l’autocrate, se non è svanita, si è quanto meno affievolita. «E per questo – aggiunge Friedman – l’Occidente ha tanto da temere. Una Russia ancora più instabile è una bomba a orologeria che attraversa undici fusi orari. Putin ha preso in ostaggio il mondo intero: se vince, la Russia perde come ha perso finora, ma se perde e il suo successore è il caos, perde tutto il mondo».
L’Occidente può intervenire solo in maniera indiretta sulle dinamiche interne della Russia. È per questo che Europa e Stati Uniti si concentrano sulle sanzioni e sul sostegno economico, militare e politico all’Ucraina, che non può essere lasciata sola al fianco di un gigante sempre più pericoloso. In un articolo di fine giugno la rivista Foreign Policy suggeriva qualche opzione per gli Stati Uniti – che per estensione può essere valida per tutto l’Occidente: «Lasciare che i diversi centri di potere all’interno della Russia si combattano tra loro, smettere di sperare in un leader russo apparentemente moderato che vuole la pace con i suoi vicini e le riforme interne, e pianificare di conseguenza: è nell’interesse degli Stati Uniti che qualsiasi conflitto interno non si espanda oltre i confini della Russia. Questo significa rafforzare la cooperazione bilaterale con vari Paesi in tutta la massa continentale eurasiatica, migliorare la reattività militare, rafforzare la sicurezza delle frontiere e le capacità di intelligence».
E oltre a fornire aiuti all’Ucraina bisognerebbe iniziare a pensare a come il caos interno della Russia potrebbe avere un impatto sui vari conflitti irrisolti che il regime di Putin ha creato in tutta la regione. Le occupazioni russe della regione della Transnistria della Moldavia, così come in Ossezia del Sud e in Abkhazia (Georgia), potrebbero diventare sempre più deboli, e per questi Paesi potrebbe esserci l’opportunità di ritrovare la loro sovranità territoriale. Inoltre, scrive ancora Foreign Policy, «se Putin cade, la presa del dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenka sul suo Paese potrebbe indebolirsi e l’Azerbaijan cercherebbe di rimuovere le truppe russe che stanno sul suo territorio dalla seconda guerra del Nagorno-Karabakh. Ognuno di questi scenari potrebbe subire uno scossone e l’Occidente non deve farsi cogliere di sorpresa su nessun dossier».