«Terence Blanchard? Ah, adesso sta facendo jazz?». Al mio agente è stata rivolta questa domanda qualche anno fa, in un incontro a colazione all’Hilton Midtown di New York, tra un bagel e un caffè nemmeno troppo buono. Questo avveniva nelle prime settimane di gennaio, quando gli organizzatori dei programmi dei più importanti festival internazionali fanno visita a New York, che in quella parte dell’anno ospita centinaia di spettacoli in occasione del Winter Jazzfest e del Globalfest. Più o meno nello stesso periodo si tengono anche numerose conferenze internazionali sui temi legati al booking di spettacoli musicali e teatrali. In quei giorni, la città brulica di possibilità e anticipa ciò che potrebbe apparire nei locali di tutto il mondo nei mesi e negli anni a venire. La domanda «Adesso sta facendo jazz?» non voleva essere incoraggiante e non intendeva essere l’avvio di una discussione sui miei nuovi progetti. Era una critica che uno dei “guardiani della cultura” che decideva le partecipazioni ai festival europei stava rivolgendo a me, alle mie esibizioni passate e al mio approccio alla composizione musicale.
Benché si trovasse in città per ascoltare gli sconosciuti-che-presto-sarebbero-stati-famosi e per negoziare con i loro agenti finché i compensi di questi musicisti erano ancora bassi, il Signor Programmatore di Festival stava rimproverando quel tal Terence Blanchard, che era giustamente lontano dalle scene. E insinuava – parlando con il mio agente, nientemeno! – che non avrei mai suonato il tipo di jazz che lui poteva prendere in considerazione per i suoi festival.
A quel tempo la mia ultima pubblicazione era l’album Breathless del 2015, che aveva l’ambizione di essere diverso e provocatorio. Volevo espandere il dialogo sulla razza e sulle relazioni razziali, espandendo, nel contempo, anche le mie composizioni e le mie performance. Se si affronta quel disco con l’ingombro dell’intera storia della musica che grava sulle proprie aspettative, probabilmente non sembrerà essere all’altezza, proprio come accadde con In a Silent Way e Bitches Brew di Miles Davis che confusero i critici: questi ultimi non ascoltarono ciò che si aspettavano di ascoltare e conclusero che quello che Davis stava suonando non fosse jazz, perché non suonava come le sue cose precedenti. Un brano di Breathless, che si intitola See Me As I Am, nasce da questo sentimento: non approcciate me o il mio lavoro con idee preconcette.
Il fatto è che io ho suonato con alcuni dei più grandi, tra cui Art Blakey, che è il leader dei Jazz Messengers ed è uno dei più influenti batteristi della nostra epoca. E spesso condivido il palco con Herbie Hancock, che continua a ridefinire che cosa il jazz possa essere. Dal 2015 ho anche tenuto centinaia di concerti in tutto il mondo con la mia band elettrica, l’E-Collective. Ho scritto qualche decina di colonne sonore per film, due delle quali sono state nominate agli Oscar. L’E-Collective ha pubblicato tre album, l’ultimo dei quali è Absence, una lettera d’amore al sassofonista (ed eccezionale compositore) Wayne Shorter creata con il Turtle Island Quartet, che è un quartetto d’archi. Non bastasse, ho composto anche due opere, alcuni brani classici e dei pezzi per la danza.
Se avessi voluto andare sul sicuro, non avrei fondato l’E-Collective e sicuramente non avrei aggiunto un quartetto d’archi nel nostro ultimo disco. Ma ho bisogno di evolvermi; devo essere in grado di esprimere la mia verità, qualunque essa sia, nella mia musica e nelle mie performance. E questo è anche l’obiettivo di “See Me as I Am”, la mia residenza in corso al Lincoln Center. Può essere un trampolino di lancio, un punto di ispirazione perché le persone che desiderano vedere se stesse e la loro cultura sul palco possano dire senza fronzoli la loro verità. Blakey diceva spesso a me e agli altri membri dei Jazz Messengers: «Non dovete porvi “al di sopra” del pubblico, ma non dovete nemmeno porvi “al di sotto” delle persone che vi ascoltano. Rivolgetevi direttamente a loro». E niente più della verità può raggiungere in modo più diretto l’anima altrui.
È vero che quando un musicista jazz decide di voler fare la colonna sonora di un film o di comporre un’opera lirica, alcune persone non lo accetteranno o non sapranno che farsene. Ma perché alcuni “guardiani della cultura” privi di volto possono definire quanto valgo e chi sono quando invece dovrei essere io a farlo? Ora, analizzando il motivo per cui ho subito dei rifiuti, mi chiedo se questo sia avvenuto perché la mia musica non suona “familiare” o non è facile da metabolizzare. Ma se la mia musica risulta troppo insolita, quali altri artisti vengono trascurati a causa del loro approccio al loro lavoro? Che cosa merita l’attenzione del pubblico? Chi corre il rischio di essere cancellato?
Se si pongono queste stesse domande nell’ambito della musica classica, ad esempio, le risposte sono ancora più desolanti. Per centotrentotto anni, il teatro Metropolitan ha chiuso le sue porte alle opere composte da musicisti neri. Quando un giornalista mi disse che la mia Fire Shut Up In My Bones era la prima opera composta da un nero che fosse mai stata messa in scena al Met, pensai che si stesse sbagliando. Abbiamo ricontrollato. Centotrentotto anni. Cinque generazioni.
I direttori d’orchestra di musica classica, almeno quelli più importanti, si soffermano raramente a considerare se Igor’ Stravinskij, Erik Satie, Alban Berg o John Cage – che sono tutti stati, ciascuno a suo modo, dei compositori d’avanguardia – siano degni di essere inseriti in un programma di musica “classica”. A settant’anni, Steve Reich, “il più grande compositore americano vivente”, è stato onorato con una serie di concerti, della durata di un mese, alla Brooklyn Academy of Music, al Lincoln Center e alla Carnegie Hall. Ma tutti questi uomini, da Stravinskij a Reich, sono bianchi. Che cosa rende il loro posto nel canone classico più significativo di quello di William Grant Still, che è noto da tempo come il “decano dei compositori afroamericani”?
Nell’estate precedente alla mia prima al Met, ho assistito a una rappresentazione dell’atto unico Highway 1, U.S.A. di Still messo in scena dall’Opera Theater di St. Louis. Quando fu composta, negli anni Quaranta, quell’opera era forte, incantevole, appassionata, unica e senz’altro all’avanguardia. Armonicamente, rendeva omaggio al canzoniere americano e alla tradizione delle progressioni armoniche del jazz. Ritmicamente, nasceva dall’esperienza dei neri in America. E, per quanto concerne la melodia, si muoveva a cavallo tra il blues, il jazz e la musica gospel.
Still fu prolifico e scrisse più di centocinquanta lavori, tra cui sinfonie, balletti, opere liriche, brani corali, canzoni d’arte, composizioni di musica da camera e pezzi per strumenti solisti, senza contare i suoi numerosi arrangiamenti per colonne sonore di film muti. Fu anche rifiutato tre volte dal Met. Sapere questo e sperimentare la bellezza della sua opera mi ha sconvolto di felicità e ha ferito il mio cuore. Forse sono stato il primo compositore nero ad aver avuto una prima al Met, ma non sono stato il primo ad avere le carte in regola per poterlo fare.
Ma i “guardiani della cultura” dell’epoca di Still hanno valutato le sue capacità guardandolo per come era e per come avrebbe potuto essere, oppure lo hanno considerato solo in base al colore della pelle e alla razza? Credo che la risposta a questa domanda l’abbia data Still stesso che, quando veniva definito il “decano dei compositori afroamericani”, chiedeva: «Ma perché, allora, Aaron Copland non viene definito il “decano dei compositori bianchi?”».
Still non è stato un caso isolato. Ce ne sono stati altri in molti ambiti diversi (e ancora ce ne sono). Dopo centotrentotto anni di esclusione, il mio successo al Met non dovrebbe essere un simbolo, ma piuttosto un nuovo inizio: guardatemi per quello che sono e non in base a ciò che voi volete che io sia, perché quella persona io non la conosco. Non posso capire chi sono o che cosa sia la mia musica da nessun altro punto di vista che non sia il mio.
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