La resistenza è donna, nonostante per lunghi anni sia stata declinata esclusivamente al maschile. Lo attestano decine di migliaia di partigiane, ma anche altrettante donne che hanno saputo ribellarsi dinanzi a diritti negati. Donne che hanno avuto il coraggio di combattere e andare controcorrente come Cenzina, la nonna di Vincenza Alfano, docente di lettere nonché autrice del romanzo “La guerra non torna di notte”, edito da Solferino. Aveva soltanto sei anni quando, cingendola nel tepore del suo affetto, le raccontava lo sgomento e gli stenti vissuti negli anni in cui, improvvisamente, la guerra bussò alla sua porta e stravolse la sua esistenza, già segnata dal peso dell’abbandono.
Orfana della prima guerra mondiale, reduce dallo strappo ancestrale dalla madre e affidata a uno zio benestante, nel ’43, Cenzina si ritrovò a dover affrontare ulteriori intemperie nella “sua” Napoli, tra le città più bombardate di Italia. «Ero troppo piccola quando, tra una favola e un’altra, mia nonna mi raccontava cosa aveva vissuto durante la guerra. Soltanto crescendo, tra i libri di scuola, ho riconosciuto il contesto in cui si inseriva la sua sofferenza. Ho imparato tardi, però, quanto vale la memoria in cui è racchiuso il nostro senso di appartenenza» racconta Alfano rintracciando nella cronaca contemporanea l’origine dell’idea di racchiudere la testimonianza della nonna in un libro.
A sollecitare la penna della scrittrice napoletana, in particolar modo, una dichiarazione della senatrice a vita Liliana Segre, secondo la quale, visto il numero esiguo di sopravvissuti ancora in vita, «tra poco sui libri di storia sarà dedicata solo una riga, poi neanche quella». Una riflessione condivisa da Alfano, soprattutto a seguito della scomparsa dell’ultimo partigiano delle Quattro giornate di Napoli, che era solito portare la sua testimonianza tra piazze e banchi di scuola. «Ho sentito l’urgenza di mettere a disposizione, attraverso l’intimità di una storia familiare, una documentazione storica che potesse aiutare a comprendere e non dimenticare il nostro passato. Soprattutto in un periodo in cui piogge di bombe continuano a cadere a poca distanza da noi» confida.
E lo fa egregiamente con un espediente letterario: attraverso uno sforzo di ricostruzione della memoria, colmato da ricerca storica e finzione narrativa, compone le pagine di un diario mai realmente esistito. Affida così la narrazione a Cenzina, moglie e madre nella Napoli borghese. «Ho scelto di scrivere in prima persona per conferirle centralità, attraverso uno scavo interiore nella sua psicologia controversa di donna esemplare che, nonostante abbia accettato in silenzio il ruolo assegnatole arbitrariamente – perché la felicità ai tempi non era prevista nel disegno di vita delle donne – in realtà non ha mai messo a tacere la sua ribellione» dichiara la scrittrice che, tra le pieghe di un conflitto mondiale, ci ha tenuto a mostrare la guerra interiore mai placata nell’animo di sua nonna, da cui ha ereditato forza e ostinatezza.
Il matrimonio combinato con Pasquale, agiato pasticcere nonché convinto sostenitore di Mussolini, pose fine, con la durezza di una condanna, a ogni sua velleità artistica custodita da anni tra i tasti del suo pianoforte e ridestò l’inquietudine che la accompagnava sin dall’adolescenza. «Mio nonno – spiega – non credeva che la sua Cenzina potesse rivelarsi diversa dalle altre donne, pretese che spegnesse ogni sua ambizione e così fu. Ma poi, come un affronto personale alla storia della sua vita sino a quel momento già troppo difficile, arrivò la terribile guerra».
Crollarono palazzi e certezze, mentre si innalzava sempre più il terrore. La fame dissolse ogni differenza sociale e a dettare le regole della sopravvivenza rimase soltanto la paura di morire.
Mossa da questo timore, infatti, Cenzina con marito e figlie lasciò la città di Napoli per rifugiarsi nella casa del mare, da quel momento diventata la casa della guerra. Laddove il mare dispensava abbracci intrisi di salsedine e spensieratezza, sopraggiunsero i bombardamenti che costringevano tutti a correre nel vicino ricovero per tentare, ogni volta, di scampare all’incontro con la morte.
«Paradossalmente il conflitto esterno restituì a mia nonna una pace interiore che le permise di mettere in atto la sua resistenza» ammette la nipote della donna che, quando i tedeschi intensificarono le ronde, spalancò le porte della sua abitazione a David e Yossi, due aviatori polacchi ebrei, ai quali insieme ai condomini del suo palazzo – in cui organizzavano assemblee di resistenza – offrì asilo e protezione nello scantinato, lasciando prevalere l’umanità sulla contezza del pericolo.
Con una matura consapevolezza del valore della memoria, in cui presente, passato e futuro si intrecciano perfettamente, per non lasciare che le parole sbiadiscano e i ricordi diventino ombre, Alfano ha impresso sulle pagine del suo romanzo il racconto orale di questi tristi avvenimenti che hanno lasciato profonde ferite in ogni famiglia.
«Ci tengo a raccontare la quotidianità della guerra e le conseguenze indelebili soprattutto alle nuove generazioni che in classe cerco sempre di sintonizzare sui saperi attraverso le emozioni. Purtroppo i giovani sono abituati a ripetere nozioni a memoria, si tende quasi a un’assuefazione della guerra, del dolore. Per tale motivo, cerco di mostrare il lato intimo della guerra, i valori umani e i diritti calpestati, invitando alla riflessione» aggiunge, soffermandosi sull’importanza di colmare un vuoto di conoscenza in merito alla Resistenza, collocata prevalentemente nell’Italia centro-settentrionale, mentre in realtà la prima città a liberarsi dal nazifascismo fu Napoli.
Proprio le Quattro giornate di Napoli segnarono la discesa in campo delle donne. Per liberare la città dall’oltraggio dei tedeschi che tentavano di inaridire il seme della ribellione, serviva un atto di coraggio. A imporsi furono le donne che fino a quel momento non avevano avuto diritto di parlare, pensare e lavorare. «In quell’occasione, per la prima volta, mia nonna si sentì padrona di una sua scelta. Come ci teneva a ribadire in ogni suo racconto mirato a evidenziare il coraggio delle donne, furono proprio loro le protagoniste dell’insurrezione popolare. Si misero alle barricate con cesti pieni di granate per armare la lotta degli uomini» ricorda Alfano rintracciando in quei momenti passi importanti che condussero verso le Quattro giornate di Napoli, ma anche verso l’emancipazione femminile.
L’urlo Jatevenne – andatevene, scritto volutamente in dialetto per conferirgli maggiore intensità – invase le strade della città partenopea finché sul viso di ogni donna soffiò il vento della libertà riconquistata. Un grido che, in altre lingue ma con lo stesso impeto, oggi, riecheggia nelle piazze di Teheran e Kabul, in ogni Paese in cui si lotta per riappropriarsi della propria dignità. «Nel mio piccolo – chiosa la scrittrice – spero che il racconto della guerra possa domare il fuoco dei conflitti ancora accesi, seppur consapevole che è sempre un vicolo cieco della storia da cui non si esce mai indenni».