Re GiorgioNapolitano, il presidente che faceva politica

L’ex Capo dello Stato è deceduto a novantotto anni. È stato un uomo spiritoso, arguto e di grande cultura e ha dedicato tutta la sua vita al partito e alle istituzioni

LaPresse

«L’importante è fare politica, non averla fatta», scriveva Giorgio Napolitano citando Plutarco. Adesso che ha lasciato questo mondo all’età di novantotto anni, dunque dopo una vita lunga e pienissima, si può ben dire che Giorgio Napolitano è stato uno di quegli uomini che hanno dedicato letteralmente tutta la vita, attimo per attimo, giorno per giorno, anno per anno, alla lotta politica.

Finché ha potuto, si capisce, giacché da tempo, prima dell’ultimo ricovero, se ne stava rintanato, salvo sporadiche uscite (anche al Senato), nella sua casa non lontana da quel Quirinale da dove aveva dominato la scena politica per tanti anni, per ben due mandati, dal 2006 al 2015, “richiamato” nel 2013 per un secondo mandato vista l’incapacità del Parlamento di trovare un successore. Anni duri.

La collaborazione-competizione con un Silvio Berlusconi che non lo amò mai, per usare un eufemismo, le difficoltà economiche di un Paese incapace di intraprendere la strada delle riforme, complice anche, per lui, il vecchio riformista, l’inadeguatezza del centrosinistra, e “costretto” per questo ad inventarsi soluzioni nuove e discusse, come l’incarico a Mario Monti per un governo tecnico che gli sembrava, e probabilmente era, l’unica soluzione in quel pantano politico dopo la rovinosa caduta del Cavaliere.

Ciascuno di questi argomenti meriterebbe un discorso lungo. Perché si tratta di passaggi drammatici e di una figura complessa, un temperamento non facile, una figura al tempo stesso capace di grandi slanci e accorte sottigliezze, un uomo di partito diventato uomo di Stato senza altra appartenenza che non a quella dei valori costituzionali. Un uomo anche molto criticato. Dalla destra, si è detto: in fondo il Capo dello Stato era rimasto un “comunista”, mai perdonandogli una militanza in un partito come il Pci che aveva commesso errori tragici, poi riconosciuti, come il famoso appoggio all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.

Ma anche da sinistra, perché l’uomo di Stato prevaleva sugli interessi di partito anche se questo comportava prezzi alti per “il partito”, come quando, dopo il voto del 2013, non si arrese alla pretesa di Pier Luigi Bersani di formare un governo pur non disponendo dei numeri necessari. Eppure era stato, eccome, uomo di partito, Napolitano.

Dalla fine della guerra si affermò come un dirigente del “partito nuovo” voluto da Palmiro Togliatti, un partito che di fatto, pur con tutte le doppiezze del caso, rompeva con l’idea rivoluzionaria in favore di una strategia democratica e parlamentare, dentro la quale egli si battè sempre per una visione gradualista, unitaria, nazionale: e decenni dopo fu il “migliorismo” erede della “destra” amendoliana che nel Pci contrastava i residui estremisti, se non rivoluzionari, ancora presenti. Chiusa la storia del comunismo con il crollo del Muro, Napolitano era il più attrezzato per andare oltre. Per lui, l’approdo avrebbe dovuto essere naturaliter la socialdemocrazia, ma il Pci-Pds scelse una strada diversa e non perfettamente definita.

Il resto è storia ravvicinata: presidente della Camera duro e imparziale, l’impegno europeo a lungo coltivato in anni di esperienza come “ministro degli Esteri” del Pci, la nomina a senatore a vita e di lì il Quirinale, per un “novennato” in cui scoprì un tratto per lui nuovo, quella popolarità che il Paese non gli lesinava ad ogni occasione.

Un presidente interventista, si disse: ed era vero, si spinse ai limiti del potere presidenziale, mai valicandoli, perché come disse Giuliano Amato, «è stato un po’ come il motore di avviamento che si mette in funzione quando il motore principale si spegne. il motore principale si spegne». E infine è stato un uomo di grande cultura (l’amato Thomas Mann, il teatro, il grande cenacolo intellettuale della Napoli di Francesco Rosi, Eduardo, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli), ed era, anche se chi non lo ha conosciuto non lo immagina, un uomo spiritoso, arguto, nel suo stile british che tanto aveva colpito la regina Elisabetta, mescolato con una napoletanità mai misconosciuta, anzi. Certo, era duro.

Chissà se c’è qualche traccia dei famosi bigliettini nei quali esprimeva le sue critiche a questo o quel dirigente durante le riunioni, o se vivono i ricordi di certe sue sfuriate. Pignolo, curioso, fino a che ha potuto, leggeva, seguiva, s’informava. Un Presidente della Repubblica di assoluta importanza nella storia d’Italia, una figura centrale nella vicenda della sinistra, un italiano che non bisognerà dimenticare.

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