Lungimiranza apprensivaLa politica più saggia è quella che guarda al futuro con la giusta dose di timore

L’ambizione è una caratteristica di molti uomini di potere, ma questa rischia sempre di intrecciarsi a disastri e decisioni fallimentari. È un pericolo a cui va incontro ogni statista, spiega Robert D. Kaplan in “La mente tragica” (Marsilio)

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La maggioranza degli uomini non commette atti violenti, pur essendone attratta. Più gli uomini sono vicini all’esercizio del potere – soprattutto burocraticamente – più si sentono appagati. Specializzarsi negli studi strategici, e ancor più lavorare in luoghi come il Pentagono, sostituisce l’impegno diretto in combattimento. Oggi anche le donne possono partecipare ai combattimenti e occupare posizioni dirigenziali e amministrative nell’esercito. Ma storicamente la guerra è stata territorio dei maschi, al vertice delle loro ambizioni. In epoca moderna, poiché in generale è lo Stato a detenere il monopolio dell’uso legittimo della violenza, la competizione per il potere burocratico si è fatta feroce.

A Washington, la rivalità tra uomini e donne per accaparrarsi un numero limitato di prestigiose posizioni governative è sanguinosa. Una volta ottenuto l’incarico desiderato, tuttavia, la fortuna può cambiare nel volgere di un istante, e ritrovarsi associati a una guerra o a scelte politiche fallimentari può significare l’umiliazione perpetua: i funzionari più legati al conflitto in Iraq ne sono un ottimo esempio. È comunque difficile resistere al fascino del potere. In base alla mia esperienza, molti sono pronti a scambiare volentieri una remunerativa carriera nel settore privato per un posto governativo mal pagato, in cui la chiamata a servire può nascondere altri obiettivi. In particolare, è quando c’è di mezzo la guerra – o la guerra è una delle tante opzioni contemplate – che le rivalità personali si fanno più feroci, sia per l’elevata posta in gioco sia per l’odore della violenza che aleggia nell’atmosfera. Dietro gli alti princìpi spesso si celano motivazioni ben più profonde. Anche i profeti possono essere corrotti dall’ambizione, come dimostrano i sospetti di Agamennone, devastato dal dolore per il destino della figlia Ifigenia, nei confronti dell’indovino Calcante.

I Greci direbbero che gli uomini non possono che entrare in conflitto con gli dèi, e quindi subire l’umiliazione del destino e di altre forze insormontabili. La tragedia, nella visione dei Greci, affonda le proprie radici nella forza e nei talenti degli esseri umani, di cui gli dèi sono gelosi: è per questo che sono sempre i migliori a soccombere. Al contrario, Shakespeare fa nascere la tragedia dalla debolezza umana, dalle ambizioni e dagli istinti che non siamo in grado di controllare. L’ambizione ci fa dimenticare le nostre origini e quindi ci disorienta, come dice Bruto quando allude alla «scala dell’ambizione in boccio».

Alcuni dei versi più memorabili del Giulio Cesare raccontano dell’irresistibile attrazione che esercita su di noi l’ambizione, uno dei sentimenti che, come la gelosia, definisce il nostro comportamento, soprattutto tra le élite di governo. «Quel Cassio ha un aspetto macilento e affamato; / pensa troppo. Uomini così sono pericolosi», sono le famose parole di un preoccupato Cesare. È abilissimo a leggere nella mente di Cassio. Quest’ultimo dice di Cesare: «Perché, amico, lui sta a cavalcioni di questo stretto mondo / come un Colosso, e noi, uomini meschini, / ci muoviamo sotto le sue gambe immense e sbirciamo / di qua e di là per trovarci disonorate tombe» . Perché il nome di Cesare dovrebbe suonare più del nostro?, si chiede infine.

In ultima analisi, il carattere prevale anche sulla conoscenza e sull’esperienza. È una cosa che ho visto più volte a Washington, tanto che quando qualcuno viene nominato segretario di Stato o alla Difesa, più che il curriculum cerco di esaminare quale sarebbe il suo comportamento in una crisi. Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz venivano da una lunga carriera di successo nell’amministrazione pubblica. Sia Cheney sia Rumsfeld erano già stati apprezzati segretari alla Difesa quando sono entrati nell’amministrazione di Bush figlio. Wolfowitz era stato uno stimato sottosegretario alla Difesa, vicesegretario di Stato, e ambasciatore in un paese importante come l’Indonesia. Ma questi curriculum erano ingannevoli, perché tutto si riduceva all’atteggiamento e alle decisioni assunte in un momento specifico: subito dopo l’11 settembre.

I Greci hanno i loro princìpi in merito. Odisseo è onesto o disonesto, imbroglione o degno di fiducia, ci ripete in continuazione Sofocle, in base a ciò che di volta in volta è richiesto dagli dèi o dalla situazione6 . La rappresentazione della personalità come agente morale o immorale comincia con Shakespeare. È questo il motivo, come dice Harold Bloom, per cui la «venerazione» di Shakespeare dovrebbe essere considerata la «religione secolare» dell’Occidente, la «nostra mitologia».

Shakespeare ci spinge a considerare un fattore critico dell’azione politica: il problema della velocità, del ritmo. La coscienza è nemica dell’azione, sembra dirci Amleto. Non agire significa vegetare. Nel Giulio Cesare, Bruto afferma che tra la decisione di compiere «una cosa terribile» e la sua attuazione si innesca un ampio e complesso dramma interiore, un’«insurrezione» mentale che determina il carattere dell’individuo e il corso degli eventi. La maggior parte delle persone esita, e alla fine si tira indietro nel momento decisivo; Macbeth si oppone a tutto questo, e il suo inesorabile potere di preveggenza non ha eguali nella letteratura. Macbeth è l’opposto di Bruto (e, ovviamente, di Amleto), il quale consulta metodicamente la propria coscienza ogni volta che deve agire e, a differenza di Cassio, non è consumato dall’ambizione ma dalla paura del dittatore che Cesare potrebbe diventare. Macbeth invece è preveggente, esita di rado, e anche le sue azioni – come l’intera tragedia cui dà il titolo – possiedono una velocità diabolica. Nel Macbeth tutto accade rapidamente. Non c’è riflessione, né consapevolezza di sé. La velocità è nemica della vita interiore e della coscienza, con i suoi conflitti dell’anima. Macbeth vive nel presente con una particolare intensità animale, come il Raskol’nikov di Dostoevskij, anche se uno è nobile e l’altro è povero (e anche se Macbeth ha una scarsa consapevolezza di sé mentre Raskol’nikov ne ha talmente tanta da sconfinare nella monomania). Macbeth si muove rapido come un animale nella giungla.

Se Macbeth è tutto azione, Lady Macbeth è tutta volontà: «Toglietemi il sesso», dice, e «riempitemi tutta […] della più feroce crudeltà!». Il loro grande amore mi fa venire in mente altri violenti dittatori e leader nazionali di cui ho scritto da giornalista, uomini inscindibili dalle oscure ambizioni delle loro mogli, con le quali esercitarono il potere in coppia, anche se non ufficialmente: Nicolae Ceaus’escu in Romania, Zviad Gamsakhurdia in Georgia, Slobodan Miloševic´in Iugoslavia. Ovviamente, il classico esempio di leader del xx secolo con una moglie ambiziosa è l’argentino Juan Domingo Perón. Senza ambizione, uomini e donne non possono cercare di migliorare il mondo.

Ma l’ambizione può intrecciarsi a disastri e decisioni fallimentari. L’ambizione storica di Putin era riunire finalmente l’Ucraina e la madrepatria russa. E guardate cos’è successo.

Le decisioni umane davvero significative corrono sempre sul filo del rasoio. Ciò che è evidente, come sappiamo dal Re Lear, è che le questioni personali possono distruggere uno Stato o un regno. È per questo che ad alti livelli il dramma politico e diplomatico è in definitiva shakespeariano, contraddistinto da motivazioni squisitamente personali. Il Re Lear è la tragedia famigliare e politica più compiuta, poiché famiglia e politica vi sono inestricabilmente legate. Nel momento in cui Lear decide di abdicare, lì dove dovrebbero esserci la tradizione e una successione ereditaria regolata, ci sono soltanto caos e desolazione.

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Quando l’ambizione porta al caos, ecco la quintessenza della tragedia. Rovesciare un leader e stare a vedere quel che succede: raramente finisce bene. Come ho raccontato, da corrispondente ho avuto modo di conoscere da vicino l’orrore del regime di Saddam Hussein qualche anno prima che il mondo concentrasse la sua attenzione su di lui: nel 1986, le autorità irachene mi avevano confiscato il passaporto per dieci giorni prima di permettermi di unirmi come giornalista embedded a una fazione di combattenti curdi sostenuti da Saddam contro l’Iran. Ogni volta che sono stato in Iraq ero preda del terrore, volevo che il dittatore sparisse. Ma ero anche ambizioso. Sulla stampa avevo avvertito che l’Iraq del dopo-Saddam poteva piombare nel caos, ma lo shock dell’11 settembre, e i recenti trionfi dell’esercito americano nei Balcani e nella prima guerra del Golfo, mi avevano convinto che ci trovassimo di fronte a un momento storico, che avessimo finalmente l’occasione per sbarazzarci del peggior tiranno del Medio Oriente e costruire un ordine migliore, più umano. Quante guerre fallimentari nascono da grandi ambizioni che poi lasciano solo profonde ferite? L’unico modo per sfuggire all’ambizione è il timore. Non il timore per se stessi, come quello che avevo conosciuto in Iraq, ma il timore divino, l’idea che siano all’opera forze più grandi di noi. Putin non ha provato questo timore prima di invadere l’Ucraina. È questo timore, avvertendoci dei pericoli che ci attendono, a offrirci la speranza più grande. La lungimiranza apprensiva è anche un presupposto dell’azione morale.

Tratto da “La mente tragica. Paura, destino, potere nella politica contemporanea” (Marsilio), di Robert D. Kaplan, pp. 144, 17€.

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