Dopo l’invernoIl documentario che racconta le ferite invisibili dei cittadini ucraini

Natalya Zaretzka è la responsabile del gruppo di psicologhe e psichiatre che lavorano a Bucha, una delle città più colpite dall’esercito russo. Dalla sua testimonianza è nata l’idea di un reportage che verrà proiettato oggi al ministero della Cultura e racconta i profondi traumi delle comunità ferite

Credits Riccardo Romani

Ci sono guerre che si dimenticano in fretta. Con lo scoppio del conflitto in Israele, quella Ucraina va in dissolvenza, così come prima, con l’invasione russa, Yemen e Siria a malapena si sono ridotte a brevi cenni in cronaca. Poi ci sono le guerre che non si vedono ma che non finiscono mai. Sono quelle che tengono in ostaggio le persone che le hanno vissute da vicino. Quando sono arrivato a Bucha a poche settimane dalla sua liberazione, ho incontrato un clima di calma rarefatta. Al rumore delle artiglierie, sottofondo abituale per la cittadina mezz’ora d’auto da Kyjiv, s’era sostituito un silenzio piuttosto surreale. Non poteva essere diversamente, se mentre cammini calpesti il luogo che è anche la sede della più grande fossa comune della guerra russo-ucraina. Circa trecento i cadaveri riesumati dal prato dietro la chiesa di sant’Andrea.

Natalya Zaretzka, la responsabile del gruppo di psicologhe e psichiatre che si è installata a Bucha dopo la liberazione

Natalya Zaretzka, una donna mite dai modi un po’ spicci, mi ha fatto da guida tra le pene di questa piccola comunità ferita in modo inesorabile. Natalya è la responsabile del gruppo di psicologhe e psichiatre che si è installata a Bucha dopo la liberazione per prendersi cura delle persone ancora sotto choc. Guarire i viventi, potrebbe definirsi la sua missione. «I traumi più profondi non sono quelli sofferti da chi ha subìto torture. Questo genere di vittime ha avuto un ruolo attivo nella dinamica instaurata con i propri aguzzini. Recupera più in fretta. Chi soffre le ferite più profonde sono coloro che sono stati testimoni di omicidi o stupri di persone care, ma non sono potuti intervenire. Ecco, in quel caso, le mente può distruggerti lentamente».


È nata così l’idea per un lungo reportage proprio sul tema delle ferite invisibili di guerra, di ogni guerra. “Dopo l’inverno”, che verrà presentato oggi al ministero della Cultura (sala Spadolini, ore 11) tocca un tema che con fatica viene trattato dai canali di news ma le cui conseguenze sociali hanno ripercussioni negli anni. Grazie al contributo e alla sensibilità della Fondazione Mesit che sostiene innovazione tecnologica e medicina sociale, la dottoressa Natalya sarà a Roma a condividere la sua esperienza personale sul campo.

Il sito di una fossa comune a Bucha

 

La cosa che per me è ancora sorprendente è che nella voce di questa donna non c’è rancore, tantomeno risentimento. «Non è attraverso questo tipo di sentimenti che si può pensare a una guarigione. Mi interessa più studiare la psiche degli autori delle torture ad esempio, perché spesso sono persone ben preparate in psicologia e sanno esattamente come ridurre la loro vittima in uno stato di totale umiliazione. Quella conoscenza mi aiuta nel recupero dei miei pazienti, ma cerco di non nutrire sentimenti nei confronti degli aguzzini. Quello che abbiamo subito come comunità è terribile, come sono terribili tutte la guerra. Ma il nostro lavoro è quello di occuparci degli esseri umani per aiutarli a tornare a vivere un’esistenza il più normale possibile». Una vita normale. Una sfida che sembra anche più grande rispetto all’idea che questa guerra possa concludersi presto.

I diritti di tutte le foto di questo articolo sono di Riccardo Romani.

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