All’ombra degli uliviLa rivoluzione non è un pranzo di gala

Un’azienda che compie dieci anni, un uliveto, un gruppo di professionisti del settore, una tavola rotonda per riflettere sul concetto di tradizione. La ricetta per far germogliare un nuovo modo di pensare il cibo

Qualche giorno fa, in un uliveto di Castelvetrano, un gruppo di persone legate dalla predisposizione a riflettere sul cibo e da una professione nel settore enogastronomico, sono state invitate a un incontro da un imprenditore che ha fatto della sperimentazione intellettuale una bandiera, e che per i dieci anni della sua azienda ha deciso di progettare un momento che potesse smuovere le coscienze. L’azienda si chiama Incuso, e sta tentando di ridisegnare i territori produttivi convincendo gli agricoltori a ritornare alla terra, garantendo sostegno, formazione, marketing e comunicazione, ma soprattutto la giusta retribuzione, a chi sceglie di fare questo mestiere, e di dedicarsi alla bellezza e al ripopolamento dei suoi luoghi attraverso la coltivazione.

Cuochi, comunicatori, giornalisti, produttori, uffici stampa, pr, vignaioli, agricoltori, manager, docenti e agronomi: la platea era varia, ma molto focalizzata sulla riflessione attorno a un tema che tutti frequentano e analizzano da anni.
Il confronto è stato acceso, e quello che ne è risultato può diventare un manifesto sul quale basare le prossime occasioni di incontro. Da “donna del fare”, frustrata da decenni di discussioni con moltissime parole ma senza realizzazioni pratiche, provo a fare una sintesi e mi impegno personalmente a difendere, almeno su queste pagine e in tutti i momenti pubblici di pensieri su cibo e vino, questi principi condivisi, che credo possano essere una nuova visione della comunicazione e della riflessione su un argomento che deve andare finalmente oltre, deve evolvere e deve trovare nuovi strumenti, nuovi linguaggi e nuove modalità di ingaggio per incontrare un pubblico sempre più ampio.

Abbiamo sempre fatto così: e chi se ne frega. La tradizione è una bandiera facile, ma non efficace e puntuale.

Intendiamoci sulle parole. Le radici sono il percorso che abbiamo fatto per raggiungere l’identità che abbiamo oggi, mentre l’identità è quello che siamo oggi.

Tutta l’arte, in un certo momento storico, è stata contemporanea, perché superava un modello consolidato: proviamo anche noi ad avere il coraggio di inventare un’alternativa, o a valutarla.

In un momento di crisi di identità le tradizioni agroalimentari sono diventate uno strumento identitario: siamo sicuri che ci servano davvero? Non cadiamo nell’inganno di piccolo è per forza bello e tradizionale è per forza buono.

Il consumatore determina il successo di una tradizione che diventa un pezzo del nostro futuro: dimenticare il consumatore nella progettazione è un errore, come dimenticare il lettore nella nostra comunicazione.

Nutriamo il nostro futuro. Il cibo ha fame di futuro perché il futuro ha fame di cibo.

Dobbiamo provare a cancellare i confini politici: la biodiversità è senza confini, così come le idee.

Il valore di un prodotto nasce dalle comunità che l’hanno costruito e va restituito al territorio che ha garantito il mantenimento di determinate culture.

È il prodotto che fa il territorio o il territorio che fa il prodotto? E se la risposta non fosse univoca e dipendesse dalle circostanze? Di sicuro il prodotto è fatto da territorio, persone, pratiche.

La tradizione è una zavorra: non riusciamo a liberarcene ed è comoda, perché ci fa rimanere nella nostra zona di comfort. Dobbiamo provare a uscire dal racconto convenzionale.

Cambiamo il focus. Freghiamocene di quello che sta succedendo ora, di fare la cronaca dell’oggi, e costruiamo il futuro.

Tentiamo di avere una visione un po’ più geografica e meno legata al tempo lineare.

Non possiamo paragonare la ristorazione all’alimentazione: teniamo separate le due narrazioni e spieghiamo la differenza.

Impariamo che il modello attuale è conflittuale. È una questione di carattere culturale ma anche economica. Prendiamo atto della nostra condizione di privilegio prima di progettare soluzioni utopiche o antieconomiche. Spieghiamo senza salire in cattedra, ma ponendoci come interlocutori informati.

Prendiamoci la responsabilità di cambiare il modello dominante, con la consapevolezza che chi si assume la responsabilità non può prescindere da chi intercetta il pensiero e lo rielabora, facendolo proprio.

Almeno qui, non prendiamoci in giro.

(Gran parte delle riflessioni sono merito di Alberto Grandi, accademico e docente e Francesco Sottile, agronomo e professore all’università di Palermo, che hanno condotto i lavori con la guida del giornalista Luca Martinelli) 

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