Il suono delle paroleAja Monet racconta la sinergia tra poesia e musica

Reduce dalla sua prima data italiana, in occasione della rassegna MountEcho’, la poetessa e attivista americana ci ha parlato del suo album d’esordio e dell’importanza del concetto di identità

Courtesy of MountEcho’

Aja Monet è una poetessa attivista per i diritti civili. Ma è riduttivo definirla così. La intervisto per la sua prima apparizione in Italia, grazie alla settima edizione di MountEcho’ a Montecosaro (Macerata), che l’ha invitata in occasione dell’uscita del suo primo album, “When the Poems Do What They Do”: musica e poesia, un reading musicato ad alto tasso di intensità. Come è lei, una poetessa attivista ad alto tasso di intensità. 

Perché la sua partecipazione alla vita su questo pianeta è totale: la coinvolge al punto da viaggiare nei luoghi più complicati del mondo, da Zanzibar alla Tanzania, da Haiti fino alla Palestina. E la guerra attualmente in corso sta bombardando il suo fare. Fare poesia, prima di tutto, che è fare collaborazione: «Molte delle cose che pensavo di sapere, non le so più. Non credo di avere tante risposte quante sono le domande che mi assillano in questi giorni. Voglio credere che la poesia sia qualcosa che può sfruttare il meglio dell’umanità, ma ci sono cose che non posso spiegare o capire».

Si commuove mentre mi parla e poi cerca di fare il punto su cosa significhi per lei essere un’attivista: «Ho fatto un lavoro che mi ha messo in contatto con le persone. Penso che le persone siano una parte preziosa della vita e che la possibilità di fare esperienza l’uno dell’altro per farci del bene, sia un dono. Lavorare con le persone, incontrarle, è ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

Courtesy of MountEcho’

Che cos’è dunque la poesia per lei? 
«Un mezzo. Credo che la poesia sia un modo di vivere, è un modo di essere e di vedere il mondo con la lente della verità, della profondità e del significato».

Che ruolo ha la poesia nella società?
«Non lo so più. Posso dire che ruolo ha nella mia vita e la risposta è che cambia continuamente. Ci sono momenti in cui è un modo per capire. Ci sono momenti in cui è un luogo in cui sollevare domande. Il tempo, sai, cambia sempre a seconda di ciò che sto scrivendo. Penso che la vita sia un’esperienza di molte emozioni, sentimenti e idee. E lì dentro si trovano modi per affrontare la vita. Si trova il modo di esistere, di respirare, di vivere, di lottare, di soffrire».

Può essere dunque un linguaggio nella lotta per i diritti civili? 
«Ho viaggiato nel mondo credendo che la poesia potesse fare qualcosa e ora mi sento completamente impotente. Sto lottando con il linguaggio e con questo momento storico. Ma… sì, voglio credere che la poesia serva».

Ad ascoltare i brani che compongono il suo disco ho pensato ad Allen Ginsberg e alla beat Generation in generale. Chi sono i suoi maestri putativi?
«Tutti i poeti che mi hanno preceduto. Penso agli artisti e ai poeti surrealisti, guardo molto ai poeti della Negritudine, quel movimento francese cui appartenevano poeti come Aimé Césaire e Léopold Sédar Senghor ma anche afroamericani, che si era sviluppato nelle colonie francofone e che poi ha coinvolto intellettuali della Francia stessa, per abolire le disuguaglianze. Penso al blues e a ciò che il blues ha significato per i neri in America e per la nostra resistenza, la musicalità della nostra sofferenza, della nostra volontà di cambiare e di crescere e di pretendere altro dalle nostre vite. Mi hanno influenzato i diversi poeti che ho incontrato nella mia comunità, a New York, formati a loro volta da altri grandi poeti del movimento artistico nero. Penso ad Amiri Baraka, molto vicino a Ginsberg e alla Beat generation. Erano tutti in conversazione tra loro. E credo che se si sta facendo qualcosa di efficace, allora si deve parlare con ciò che è venuto prima di noi, perché nessuno è un’isola».

 

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L’identità ha un ruolo importante nei suoi lavori. In che senso conta?
«Penso che l’identità sia un punto di ingresso. È un mezzo, non è il fine. L’identità è un modo di essere, di parlare e di impegnarsi nel mondo, ma non definisce. Essere nera o donna non è intrinsecamente importante: è l’essere parte dell’umanità che ci unisce. Però esistono delle divisioni nel modo in cui sperimentiamo questa esistenza insieme. La società, i Paesi o le comunità ci trattano in base alle singole caratteristiche che abbiamo e questo può espandere o limitare la nostra visione del mondo. Per questo è importante capire che l’identità è una finestra sul mondo, ma non l’intera casa».

Cosa vuole dire agli Stati Uniti, il Paese in cui è nata e vissuta sino ad ora, con la sua poesia?
«Mi interessa la gente. Mi interessa la qualità delle nostre vite e anche la qualità della Terra, dell’ambiente che condividiamo. Non so se voglio dire una cosa specifica, voglio fare tutto il possibile per contribuire a creare una vita sostenibile per tutti, renderla migliore».

Torniamo al suo album. Perché ha scelto di unire musica e poesia?
«L’ho sempre fatto, solo che questa è la prima volta che ho avuto le risorse per fare un album. Credo che alla maggior parte dei poeti non sia data la possibilità di esplorare la poesia in tutte le sue forme. Se qualcuno mi desse le risorse per fare un’intera mostra di dipinti, probabilmente dipingerei. Se avessi le risorse per mettere in scena una produzione teatrale, farei una produzione teatrale. La poesia non è limitata a un medium specifico, anzi, l’obiettivo di ogni artista è esplorare le proprie abilità e capacità creative in forme diverse. Ovviamente, prima c’è l’immediatezza del bisogno di esprimersi e allora si usa quello che c’è a disposizione. Io, sin da bambina, avevo carta e penna».

Ma comporre poesia ha a che fare con la musica?
«Sì. Credo che le parole siano suoni e la poesia una forma d’arte sonora».