A Beit Hanina, zona palestinese di Gerusalemme Est, il professore ci conduce nel community center del quartiere, finanziato dalla municipalità di Gerusalemme per erogare servizi e fare investimenti. Ci porta a parlare con uno dei leader della comunità, un cittadino arabo d’Israele, che da decenni lavora per il quartiere e la sua gente. Parliamo con lui, gli chiediamo tutto su Israele, la minoranza araba, il rapporto coi palestinesi, l’occupazione vissuta dai residenti palestinesi di Gerusalemme Est che non hanno accettato l’unificazione della città dopo la Guerra dei Sei Giorni. Parliamo per più di un’ora, liberi di discutere e di conoscere il punto di vista di chi tutti i giorni si confronta con le tante realtà di Israele.
A Nebi Samuel, nei Territori palestinesi, visitiamo la moschea e la tomba del profeta Samuele, che sono una sopra l’altra. Siamo in territorio che la comunità internazionale considera occupato, oltre la linea verde che segna l’armistizio del 1949. La moschea è custodita da un palestinese, ma l’edificio accoglie un luogo di culto ebraico al piano inferiore, in corrispondenza della tomba del profeta. Sul tetto dell’edificio, il professore ci mostra i villaggi palestinesi e gli insediamenti israeliani. Senza filtri, ci esprime la sua opinione di oppositore degli insediamenti e di sostenitore del dialogo coi palestinesi. Alla fine della visita, ci porta dal custode, che conosce da anni e con cui si intrattiene. Parlano arabo entrambi, uno ebreo israeliano, docente universitario ed ex funzionario del governo, l’altro arabo palestinese.
Al termine di una delle ultime lezioni, mentre ci prepariamo a simulare un negoziato su Gerusalemme nella cornice dei due Stati per due popoli, il professore non manca di raccontarci che un suo studente ha assunto una posizione di rilievo in Giordania che lo rende voce critica nei confronti di Israele. Lo dice con soddisfazione non perché ne condivide le posizioni, ma perché sa di aver accompagnato nella crescita una voce libera.
Poi si alza in fretta per andare all’aeroporto di Tel Aviv: va a manifestare contro la riforma della giustizia voluta dal governo di Benjamin Netanyahu, in una delle tante manifestazioni che hanno visto – tra le centinaia di migliaia di partecipanti – la presenza di tantissimo personale delle università.
Queste scene del mio soggiorno-studio all’Università ebraica di Gerusalemme, lo scorso luglio, mi tornano in mente mentre leggo l’appello che poco meno di quattromila docenti universitari, ricercatori e dottorandi hanno firmato per chiedere, tra le altre cose, «l’interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane». Pur nella consapevolezza che alla fine la colpa è mia e delle mie aspettative, e pur sapendo che si tratta di una minoranza, non riesco a non pensare a questa richiesta come a uno dei punti più bassi in questo mese di assurdo dibattito pubblico sulla guerra in Medio Oriente.
È sconcertante che una richiesta del genere esca dalle università, che dovrebbero ispirarsi non soltanto al rigore dello studio e della ricerca, ma anche al pluralismo che di essi è al contempo premessa e sbocco naturale. È sconcertante che i firmatari chiedano il boicottaggio di una delle realtà più straordinarie dello Stato ebraico, quel mondo della ricerca in cui l’autorità è contestata, le leadership di domani sono formate, il dibattito è nutrito incessantemente. Quei luoghi in cui studenti israeliani, palestinesi, e chi più ne ha più ne metta, condividono gli spazi di studio, come avviene all’Università ebraica di Gerusalemme, in un ambiente in cui le idee circolano, in un contesto in cui le idee contano.
È impossibile abituarsi a questo rifiuto per le idee, tanto riprovevole quanto banale, sostenuto in spregio a ogni senso della storia e a quella vocazione al pluralismo delle idee che dovrebbe accomunare tutti coloro che scelgono di fare ricerca e di formare le nuove generazioni.
La richiesta di boicottare le università israeliane è disonorevole e rappresenta una pagina avvilente del dibattito sul Medio Oriente. Che sia fatta apparentemente ispirandosi a principi progressisti è solo segno delle tante distorsioni logiche con cui viene affrontato il conflitto israelo-palestinese da parti minoritarie del dibattito pubblico. L’appello sembra più che altro un tentativo esplicito di affermare una visione parziale in nome di precisi obiettivi politici. Non può essere altrimenti di fronte a un testo che si professa contro una «illegale occupazione che Israele impone alla popolazione palestinese da oltre settantacinque anni», affermando di fatto l’illegittimità dello Stato di Israele anche nei confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.
La domanda sorge spontanea: a quando risale questo «oltre»? Alla grande rivolta degli arabi del 1936-1939? Alla fondazione dell’Università ebraica nel 1918? Alla fondazione di Tel Aviv nel 1909? Alla fondazione di Rehovot nel 1890? Alla fondazione del quartiere gerosolimitano di Mishkenot Sha’ananim nel 1860? C’è una data prima della quale la presenza di un collettivo nazionale ebraico in Medio Oriente non è considerata illegittima dai censori del tempio del diritto internazionale che si dimenticano il 1947 e il 1948, anni in cui gli ebrei di quella terra accettano la partizione voluta dall’ONU e si trovano a difendersi in una guerra iniziata per cacciarli in mare?
Non è tuttavia necessario soffermarsi su questi errori presenti nel testo. Non c’è bisogno di evidenziare gli stiramenti concettuali adoperati per svuotare di senso le categorie e renderle a misura di narrazione politica. È sufficiente guardare dall’altra parte, nello specchio, per misurare il vuoto che esprime la richiesta di boicottaggio. La libera circolazione delle idee, la libertà di ricerca, la vocazione al pluralismo, all’apprezzamento delle sfumature sono valori che permeano il mondo universitario di Israele e c’è solo da augurarsi che tale contaminazione tocchi sempre di più i nostri ambienti della cultura, in contrapposizione al manicheismo e all’unilateralismo delle narrazioni ideologiche della storia e dei fenomeni politici.
Sono quei valori di libera circolazione delle idee quelli con cui il mio professore e moltissimi altri suoi colleghi educano gli studenti. Così facendo non soltanto sono un esempio per la formazione dei più giovani, ma producono anche molti più benefici per quella terra martoriata (e i suoi abitanti, tutti) di qualsiasi boicottaggio, che appare, al fondo, l’ennesima criminalizzazione di un intero collettivo nazionale fatta passare per attivismo degli intellettuali.