Quindi gli italiani, gratis, guardano Beppe Grillo. Gratis guardano le battute vecchie (quella sul datore di stipendio ero alle elementari la prima volta che gliel’ho sentita fare), l’italiano traballante («io vorrei che ti dasse la possibilità» è un congiuntivo che neanche Luciano Salce sceneggiando Fantozzi), e in generale la disperazione, che è in effetti uno spettacolo sempre telegenico.
Guardano, gratis, la magrezza: la prima cosa che ho pensato io è stata «eh ma com’è dimagrito», preparandomi quindi subito a fare ammenda per aver detto che usava foto promozionali di quaranta chili fa. No, è proprio dimagrito, che è una buona ragione per andare in tv: cosa hai fatto la dieta a fare, se nessuno vede i risultati.
Gratis, gli italiani sono molto più disponibili a tutto, figuriamoci a farsi intrattenere senza pagare un biglietto a teatro. Teatri che all’ultimo tour Grillo ha faticato a riempire, e potremmo dire per forza, potremmo dire ma l’avete visto da Fazio, potremmo dire sembrava un monologo di chissà quanti anni fa, citava Facebook come fosse l’ultima diabolica invenzione, ma insomma non è che i grandi successi di massa si facciano con la roba sofisticata e avanguardista.
È quindi improbabile che, a pagamento, non siano andati a vederlo per la qualità dei testi comici. Temo c’entrino le tifoserie: chi era contrario a Grillo come politico, vedrebbe come tradimento l’apprezzare Grillo comico; chi votava da quella parte, ora lo considera un traditore del Movimento (questi ultimi, come tutti i tifosi delusi, sono più invasati, e si racconta chiamassero i teatri dicendo: come osate ospitare lo spettacolo di quel marrano? – o forse la parola non era esattamente «marrano»).
A metà dell’ora del Grillo, “Che tempo che fa” era a quasi due milioni e novecentomila spettatori. La settimana prima, alla stessa ora, c’era mezzo milione di persone in meno, e quindi è incontrovertibile: gratis, lo guardiamo. Il passaggio successivo è: il campione gratuito di prodotto ci fa venir voglia di comprare il salume del caso, in questo caso il biglietto a teatro?
Ci sono, nell’ora in cui Beppe Grillo strologa da Fabio Fazio, un paio di momenti utili a capire a cosa serva un conduttore televisivo, e un paio di buone battute.
Poi c’è anche Grillo che spiega al pubblico in studio che loro sono ignoranti, «state capendo il quaranta per cento di quello che dico», che non leggono, «io ho i libri tutti segnati», e noi sui nostri divani medi riflessivi diciamo va bene, Beppe, tutto giusto, ma tu poco fa hai detto «gravitare» intendendo «gravare», e insomma sei la dimostrazione che leggere non serva a niente, neanche a imparare la lingua in cui leggi, la lingua in cui ti parlavano da piccolo, la lingua nella quale hai frequentato le scuole, la lingua che parli come fossi sbarcato a Lampedusa il mese scorso.
In un documentario su George Carlin che ho citato un milione di volte, Chris Rock dice che i comici sono i nuovi filosofi, perché i filosofi chi li ascolta più, e io sono d’accordo: mi hanno spiegato più il mondo Rock o CK o Guzzanti di quanto l’abbiano mai fatto Fichte o Anassimandro, e non solo perché a scuola facevo più assenze di quante ne facessi le sere in cui andava in onda “Avanzi”.
«Rubavano tutti, era meraviglioso» è la sintesi grilliana di com’era Genova prima che al porto arrivassero i container, prima che il primo ladro decidesse di stare a casa una sera invece di uscire a rubare e il virtuoso circolo economico s’interrompesse. È anche, per noi vegliardi, una citazione della fine della sua prima vita, dei socialisti che se rubano tutti a chi rubano, della Rai 1 della cacciata, del ritorno in politica come conte di Montegrillo? Chissà: i secondi livelli di lettura dipendono da chi fruisce l’opera quanto da chi la crea.
Il governo inutile da contestare perché «è una decalcomania: più ci sputi più si appiccica» pure non è male, così come l’immagine di Beppe Grillo che negli autogrill mette il libro di Casalino davanti a quello di Vespa. Ma forse la mia battuta preferita della parte debole del monologo è quella in cui Grillo, egomaniaco quanto e più di tutti noi, dice «nel mio testamento mi son lasciato tutto a me» (forse era, di sponda, una battuta sul processo del figlio – certo, un po’ sofisticata per la prima serata).
La parte non debole è quella in cui Fabio Fazio ci ricorda che la tv non si fa da sola, che qualcuno lì a gestire la situazione serve; quando riesce a ricondurre Grillo nel binario «gettone/aneddoto» delle interviste alle celebrità, tutto funziona meglio.
La volta alla Casa Bianca, con Renzo Piano e Bill Clinton. La volta con Gino Paoli e i Kiss. Beppe, raccontaci di quella volta che. Quel tipo di tv lì, quella dei late night americani, quella di Fazio, si fa così, col repertorio di aneddoti che in casi come quelli di Grillo (cioè: di ospite che non si fa intervistare spesso) non è neanche troppo consunto.
Lo so, non ho detto niente del Grillo pentito che parla della sua invenzione politica, di Conte (il segnaposto, no il cantante) che non si capiva niente quando parlava e quindi era perfetto, di quella che i giornali di ieri titolavano come un’ammissione d’aver peggiorato il paese. Poiché il pubblico non sa niente, Grillo non sa niente, e quindi perché i giornali dovrebbero sapere che pure quella era promozione: “Io sono il peggiore” è il titolo del suo ultimo spettacolo, mica una frase a caso.
Non ho detto niente perché mi sembra che, come all’inizio lo si era sottovalutato pensando che chi mai avrebbe votato degli analfabeti il cui slogan è «Vaffanculo» (chi mai, in questa società di raffinati intellettuali), ora Grillo lo si sopravvaluti: se non fosse stato lui, sarebbe stato un altro. Mica in natura può esserci un vuoto di istanze grossolane.
Adesso, col senno di poi, tutti a dire «genio», invece di dire «Tutto qui?», tutti a dire «eh però le battute erano mosce», invece di dire: per forza, mica i testi glieli scrive più Michele Serra. Certo, Grillo è ancora un notevole talento fisico, ma quel tipo d’impetuosità a trent’anni funziona inevitabilmente più che a settantacinque, quando ti tocca stare a dieta per non restare senza fiato a metà spettacolo.
Domenica, a un certo punto, mi sono ricordata d’un libro giovanile in cui Gramellini spiegava che Fazio, che passava per il principino dei buoni, era in realtà cattivissimo. È stato quando Fazio ha chiesto a Grillo chi gliel’abbia fatto fare di mettersi a fare un partito, e gliel’ha chiesto con una premessa che faceva così: «Tu che eri collega di Buster Keaton».
Ho avuto la sensazione che Grillo non cogliesse la ferocia di quell’iperbole, e mi sono imbarazzata come sempre succede quando, alla tele, vedi qualcuno che la sa più lunga accanirsi su un tapino che non s’accorge dell’abisso di ridicolaggine. Quell’imbarazzo di quando, per vedere sbranare qualcuno, non hai neanche pagato il biglietto.