Quella ingiustificata euforiaNel secondo dopoguerra la democrazia sembrava alla portata di tutti

L’autoritarismo non è finito nel 1945 e nemmeno con la caduta del muro di Berlino. Il traguardo di eliminare i regimi distopici non è mai stato raggiunto, racconta Paolo Mieli nel suo ultimo libro

LaPresse

Il Novecento può essere definito il secolo autoritario. Anzi, il secolo autoritario per antonomasia. C’è stato un tempo, tra l’estate del 1939 e quella del 1941, in cui l’intera Europa (eccezion fatta per la Gran Bretagna e pochissime altre realtà) si ritrovò a vivere sotto un regime dittatoriale. Dittature di destra o di sinistra, ma pur sempre tirannidi.

Uno stato di cose che si protrasse fino al giugno del 1941, allorché Adolf Hitler decise di invadere l’Unione Sovietica. Da quell’estate le tirannidi restarono tirannidi ma la Seconda guerra mondiale prese un’altra piega. E si concluse in un modo che lasciò sperare fossimo sulla via di una progressiva, ancorché graduale, eliminazione dei regimi dispotici.

Il mondo era ben consapevole del fatto che questa via era stata soltanto imboccata, che una parte dei vincitori della guerra, i Paesi comunisti, non manifestava alcuna intenzione di affidarsi a processi di democratizzazione. E che la quasi totalità dei Paesi emancipati o in procinto di emanciparsi dal colonialismo avrebbe optato, quantomeno temporaneamente, per una fase autoritaria. Ma era lecito sperare che con il passare del tempo queste opzioni sarebbero state riconsiderate e che il traguardo della liberal democrazia fosse alla portata di tutti.

Nel giro di due o tre generazioni il mondo intero avrebbe scelto una qualche forma di regime liberale. Avrebbe cioè trovato il modo di concedersi libertà di pensiero, libertà di espressione, libertà di voto, libertà di culto. Fu questa la grande illusione del secondo dopoguerra. L’idea che fosse impossibile governare i popoli senza una dose robusta di autoritarismo era antica di millenni, quasi connaturata al principio stesso del comando. Solo negli ultimi due o tre secoli avevamo potuto immaginare di lasciarci alle spalle l’esercizio dispotico del potere e riprendere dall’antichità altri fili che ci avrebbero consentito di tessere una tela diversa.

Ancorché uno di questi fili, quello cosiddetto «democratico», si fosse dimostrato equivoco, fragile e sostanzialmente poco adatto per l’organizzazione di società sempre più consapevoli dei propri diritti. Nel senso che immancabilmente il «governo su mandato del popolo» si era rivelato pieno di inganni e di insidie, parte delle quali erano già state individuate, duemilacinquecento anni fa, nell’Atene «democratica» del V secolo a.C.

Nella ingiustificata euforia del secondo dopoguerra il mondo intero è stato inoltre indotto a tralasciare l’analisi del senso profondo che aveva avuto la saldatura «temporanea» (ventidue mesi) dei due grandi sistemi autoritari europei, quello nazista e quello comunista. La Guerra fredda poi fece il resto. Nel senso che la contrapposizione tra Occidente e universo staliniano ostacolò un’indagine storiografica riconosciuta come valida da entrambe le parti su cosa avesse reso possibile quella saldatura. E su cosa avesse comportato.

Quando poi nel 1989 cadde il muro di Berlino e alcuni Paesi (in particolare quelli dell’Europa Orientale) provarono a riaprire quel capitolo, era tardi. La riapertura fu funzionale alla Polonia e ai baltici, nell’immediato, per scindere i propri destini da quelli dell’ormai ex Unione Sovietica. Ma non ebbe una portata tale da generare un nuovo canone storiografico più rispettoso nei confronti di quel che era realmente accaduto nei fatidici mesi tra il settembre ‘39 e il giugno ‘41.

L’assenza di questo canone storiografico ha avuto qualche conseguenza non marginale nella genesi dell’aggressione russa all’Ucraina. E nel disorientamento che essa ha prodotto in una parte tutt’altro che irrilevante dell’opinione pubblica europea.

Paolo Mieli, Il secolo autoritario. Perchè i buoni non vincono mai, Rizzoli, 300 pagine, 18,50 euro.

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