Di libri sul lavoro ce ne sono tanti. Di libri belli sul lavoro ce ne sono pochi. L’ultimo di Marco Bentivogli, “Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro” (Rizzoli), appartiene alla seconda categoria. A partire dal titolo, che non teme di resuscitare un termine retrò per affermare un’amara verità: se il mercato del lavoro in Italia non funziona, è soprattutto colpa loro, dei capi. Dei padroni, appunto. Che, attenzione, non sono solo gli imprenditori o i manager che gestiscono le aziende. Ma quella che più comunemente si chiama “classe dirigente”.
Non bisogna quindi farsi ingannare dal titolo. Nel mirino finiscono tutti. Il libro non è un pamphlet nostalgico delle lotte sindacali degli anni Settanta. Anzi. «Cerco di aprire una discussione nel Paese sul potere, parlo del potere in azienda ma vale per tutti. Anche per il sindacato, le associazioni», spiega Bentivogli, che è stato a lungo segretario dei metalmeccanici della Cisl, attraversando le relazioni industriali italiane in lungo e in largo.
Oggi, dice Bentivogli, ci sono quattro fattori che rendono «inutili e insopportabili i nuovi padroni anche camuffati nelle forme più insidiose del paternalismo moderno». Il primo è l’avvento di quello che il sociologo canadese Alain Denault chiama “mediocrazia”, «ovvero la facilità con cui in troppi casi i mediocri vanno al potere». Il secondo è l’ostinata permanenza delle strutture organizzative gerarchiche basate su comando e controllo, «che servono solo al rifornimento narcisistico dei capi». E anche se il digitale (il terzo fattore) offre enormi opportunità, «se hai un padrone mediocre e che sa solo controllare, te lo può portare in casa e in vacanza anche ventiquattro ore al giorno». Ciliegina sulla torta: i social e illusione dell’eternità (quarto fattore). Perché quel narcisismo di cui sopra «cresce con l’età e crea situazioni imbarazzanti, mentre rinforza la gerontocrazia italiana».
Difficile trovare uno spiraglio, un pertugio, per cambiare le cose. Bentivogli, dopo le dimissioni dalla Fim, ha fondato con il filosofo Luciano Floridi l’associazione Base Italia per raccogliere le migliori idee in circolazione e far tornare a crescere il Paese. Eppure nel libro scrive: «Il sentimento che provo maggiormente è la rabbia». Questo perché, spiega, «siamo in un momento cruciale e mi fa rabbia che in troppi non abbiano imparato nulla dagli ultimi disastri».
Nell’Italia che si riempie la pancia di convegni sul futuro del lavoro, intelligenza artificiale e giovani, e che ora ha addirittura un ministero al «merito», impera invece la curva piatta della mediocrazia, dei capi che amano circondarsi da «yes men» e che alimentano una sorta di «tetto di cristallo» anagrafico. Un muro di gomma della classe dirigente che spinge i giovani e l’innovazione verso il basso, facendo prevalere il narcisismo senile.
«La curva del narcisismo iniziava la sua fase di discesa dopo i sessant’anni, adesso è per troppi una curva che cresce costantemente con gli anni», dice Bentivogli. «Abbiamo una generazione che si è battuta per andare in pensione presto. Andati in pensione, poi hanno continuato a lavorare (non mi riferisco a quelli che hanno avuto necessità di integrare la pensione per campare). E se qualcuno superati i settant’anni gli dice “ma forse potresti lasciare il passo a qualcuno più giovane”, si imbufaliscono». Fine carriera mai.
Per l’ex sindacalista è anche colpa dei social, «che danno ai nuovi padroni l’illusione di eternità e questa mistificazione aggiunge problemi al ricambio. Si migliorano le foto, si va dal chirurgo».
Del ricambio generazionale si parla solo nei convegni. Poi, nella realtà, quegli stessi relatori non rinuncerebbero mai alle proprie posizioni. «Guardiamo le norme sul ricambio dei parlamentari», continua Bentivogli. «È triste dirlo ma funziona solo nel Movimento 5 Stelle. La speranza di vita si è allungata e bisogna insegnare a contenere più vite nella propria. Io credo nella Big Society, credo che ci sia un momento in cui occuparsi degli altri, fare volontariato».
Nel libro, viene decritto un Paese «con molti capitali e pochi capitalisti», fondato sul «capitalismo relazionale» e con «l’ascensore sociale bloccato». «Si eredita ricchezza, ma anche la povertà», spiega Bentivogli. «Nessuno si è allarmato per il crollo del numero degli studenti lavoratori. Si è arrivati a demonizzare il “merito” perché è troppo spesso una trappola in cui si bara sulle condizioni di partenza. In cui il valore, l’impegno, la fatica e lo studio sono superati dalle relazioni, dalle conoscenze. Si confonde il mercato e la concorrenza con il capitalismo relazionale, in cui contano i buoni rapporti e servigi con il potente di turno».
Ma, grattando grattando, emerge che la gran parte delle forme organizzative delle imprese e delle organizzazioni italiane è vecchia e stantia, «basata ancora sul comando e controllo. Forse funzionava in epoca fordista, in cui si misuravano i pezzi prodotti nell’unità di tempo. Oggi il lavoro e la produttività sono altro e il controllo è dannoso al benessere delle persone e alla produttività». Certo, «adesso si dice che mi occupo del tuo “recruitment”, ti porto “on board” ma devi darmi garanzie sul tuo “engagement”. Inglesismi che celano spesso il controllo, attraverso il linguaggio maschile militare o della nave».
Non a caso, forse, oltre una donna su due nel nostro Paese non lavora. E invece, ricorda Bentivogli, «“il futuro del lavoro è femmina”, come dice Silvia Zanella. Serve un’operazione di verità sul lavoro e una visione prospettica che gli restituisca la possibilità di renderci più umani».
Il risultato oggi è che il nostro Paese ha un tasso di felicità sul lavoro tra i più bassi d’Europa. «Siamo un Paese ripiegato e triste proprio a partire da questo: siamo i più sfiduciati e stressati, il nostro rapporto malato con il lavoro è la vera emergenza», spiega l’ex sindacalista. Un’emergenza che genera pratiche catastrofiche per il lavoro e per le imprese: grandi dimissioni, quiet quitting, «disingaggio» progressivo.
Questioni gravi per un Paese malato anche di bassa produttività del lavoro, tra scarsa innovazione, prevalenza di piccole imprese e inefficienza della pubblica amministrazione. È in queste crepe che sopravvivono i gruppi dirigenti, pubblici e privati, «che difendono il loro ruolo ma non pensano, non dico al futuro, ma a domani mattina».
Eppure, Bentivogli intravede anche le pecore nere in questo gregge di mediocrazia. «C’è anche, per fortuna, un’“Italia a prescindere” che sfida queste congreghe che si autoproclamano élite e tiene in piedi il Paese dal punto di vista economico, civile, umano», dice. «La sfida vera è aiutarla a riconoscersi a costruire un’alternativa».
Sono le realtà fuori dai monitor che innovano davvero, che non si nascondono dietro gli inglesismi del work washing, che si aprono al dubbio e alle critiche e valorizzano le intelligenze, anche attraverso i salari. Luoghi che fanno formazione, quella vera (Bentivogli propone di tassare l’ignoranza di imprese e pubblica amministrazione che non garantiscono formazione di qualità, come chi emette Co2, perché introducono “esternalità negative”). Dove i ruoli si pesano sulla base di «responsabilità e capacità autentiche». In cui la «disciplina» non è un servilismo interessato e le nuove generazioni non sono dei «bonsai» di quelle precedenti.
I momenti di transizione sono anche momenti di incertezza e di paura, ed è fisiologico che vi sia una quota di persone che si accontenta di «sopravvivere». Ma sono anche momenti di formidabili sfide, dice Bentivogli. «Serve un minimo di audacia, senza la quale non ci sarà alcuna discontinuità: quella necessaria per ricostruire i gruppi dirigenti di cui il nostro Paese ha straordinario e urgente bisogno».