Ogni bomba russa lanciata sull’Ucraina distrugge le case e uccide i civili ma al contempo cancella lo strato di propaganda, bugie e secoli di colonizzazione, scoprendo così al mondo la vera storia e identità degli ucraini. L’Impero russo prima e l’Unione Sovietica dopo hanno investito risorse massicce nel deformare l’immagine dell’Ucraina e nel crearne uno alternativo, ora la Russia investe altrettante risorse massicce nel cancellare i secoli del proprio dominio. Lo dimostrano centinaia di palazzi storici, chiese, vie, intere città ritenuti dal Cremlino i pilastri del mondo russo, ormai danneggiati o distrutti interamente dalle sue stesse mani. Nonostante la guerra ancora in corso, il piano di ricostruzione dell’Ucraina è già partito. E per quanto riguarda l’architettura, l’Italia è in prima fila. Parliamo della città di Mykolaiv che sorge a sessantacinque chilometri dal Mar Nero nell’estuario del fiume Buh Meridionale. Nùevù e Altereco sono due studi italiani vincitori del Design for peace per la ricostruzione del Palazzo della cultura fortemente danneggiato da una bomba russa nell’estate del 2022.
«L’Italia è stata la prima a livello mondiale a proporre questa soluzione. Più di un anno fa il Consiglio nazionale dell’Ordine degli architetti ha lanciato una chiamata rivolta agli studi di architettura e a giovani architetti profughi ucraini in Italia per sviluppare progetti mirati su dieci interventi in cinque-sei città bombardate. Abbiamo mandato la nostra candidatura e così abbiamo conosciuto Olena Hordynska, giovane architetta ucraina che conseguiva un master all’Università di Torino. Insieme abbiamo partecipato a design for peace», racconta Tonio Giordano, l’architetto e fondatore di Altereco, uno studio di architettura con sede a Rutigliano che insieme a Nùevù fa parte dell’associazione Macrohabitat-storie dell’uomo e dell’abitare la terra.
Potrebbe sembrare che ai progetti massicci come la ricostruzione post bellica di un paese partecipino delle realtà di livello internazionale o globale, tuttavia un grande puzzle è costituito da piccoli pezzetti. Altereco è una piccola realtà che si interfaccia con pubbliche amministrazioni: comuni ed enti pubblici. «Per quello che riguarda la rigenerazione urbana lanciamo il nostro cuore oltre ostacolo. Non pensiamo in termini di metro quadro ma in termini di welfare e benessere», puntualizza Tonio raccontando dello studio e a chi sono rivolti i loro progetti. In collaborazione con Nùevù, Altereco si è presa carico di realizzare non soltanto la ricostruzione di un palazzo della cultura ma di «riformare l’istituto della cultura non il palazzo di per sé», aggiunge Massimo Romanazzi, anche lui architetto che fa parte di questa squadra affiatata.
«Non è più il palazzo della cultura, un luogo chiuso nel senso anche come definizione di spazio ma bensì un parco: “Korabelnyy cultural park”, un’area da condividere con la cittadinanza. La ricostruzione di così come era non sarebbe conveniente dal punto di vista economico, ma non era neanche nelle nostre priorità. Ci piaceva cambiare il piano del calpestio rispetto al preesistente, scavare, fare sì che il nuovo piano della città si abbassasse in qualche maniera. Andare a recuperare quella stratificazione storica», continua, «Sarà un progetto orizzontale che si estende, non verticale come da preesistenza. Si stende sul terreno rimodellandolo. Il suo tentativo è di essere più accogliente possibile per la cittadinanza non soltanto dal punto di vista culturale. Tant’è che il fronte principale sarà una sorta di parete attrezzata per essere scalata dalle nuove generazioni».
«Spesso la città di Mykolaiv la associano alla Russia senza neanche farsi qualche domanda. La storia di questo posto è stata ridotta a una città industriale dove costruivano le navi, il che è importante ma c’è molto altro oltre a questo. La narrativa russa era quella che prima di loro non c’era niente, ignorando completamente tutti gli antichi insediamenti, la vicinanza all’antica Olbia, la presenza di antichi greci e di altri popoli», aggiunge Nadiya Yamnych, cofondatrice dello studio di design Nùevù.
Nadiya è un’ucraina che vive in Italia ormai da molti anni e insieme a suo marito Walter Trento hanno fondato lo studio di design Nùevù che dal dialetto cisternino si traduce come Noi e Voi. «Ci piaceva il concetto dello studio. Se tu stai costruendo, pensando a una casa, decorando, non si può mai avere un approccio da fuori, è sempre noi e voi la base del pensiero quotidiano, è sempre un dialogo. Vuoi mettere i concetti ma la casa sarà vissuta da chi ti chiede di essere accompagnato in questo viaggio», spiegano Nadiya e Walter del perché di questa scelta del nome.
Ritornando alla ricostruzione del palazzo della cultura che a detta del suo direttore non sarebbe conveniente economicamente, sono i cittadini stessi di Mykolaiv a non voler vedere più quella pesantezza sovietica, vorrebbero qualcosa di più contemporaneo, più leggero e più vicino alle persone, soprattutto più lontano dalla Russia, per cui sono felici di dover abbattere questo edificio senza alcun rimorso. Ed ecco che l’ultimo strato della simbologia sovietica viene meno e spoglia le stratificazioni storiche che si sono susseguite nei secoli sul terreno della Mykolaiv odierna.
«Nella nostra ricerca siamo partiti dalle stratificazioni della storia. Pensiamo alla città che geograficamente si trova sullo sbocco del Mar Nero, vicino all’antica Olbia, agli insediamenti di antichi greci, e del XIII secolo a.C. La storia è molto profonda che in qualche maniera è stata messa da parte. Ci piaceva non focalizzarci su un unico periodo. Siamo fatti di strati, più li conosciamo, più coscienti siamo, più possiamo esprimerci nel contemporaneo», racconta il punto focale del loro progetto di ricostruzione Nadiya.
L’area totale su cui andranno a lavorare è di circa dodici mila metri quadri. Il progetto potrà collegarsi ad altri che erano già in corso ma fermati a causa della guerra. Inoltre questo edificio insieme al parco sarà la parte verde della città rivelando ancora una volta l’autenticità del posto. «Tutto il palazzo diventa un giardino verde. Abbiamo studiato la flora locale, delle steppe, del parco nazionale per capire come introdurre le piante endemiche, autoctone. Come se fosse un ritaglio della steppa portata in città», continua Nadiya.
Oltre a riscoprire la storia, la realtà contemporanea contempla anche la presenza di un bunker e di dover essere accessibile a tutti. Per quanto fosse complicato da accettare ma alla fine della guerra la società dovrà fare i conti con tanti mutilati e le città moderne non possono non tenerne conto. «Volevamo dare anche sostanza a questa proposta, ci siamo portati dietro una serie di partner tecnici da chi costruisce bunker, chi ci si occupa delle strutture in cemento armato, parte impiantistica. Ma ci siamo anche portati partner che lavorano sull’abbattimento delle barriere architettoniche, un progetto friendly. E quindi abbiamo un partner a Milano e uno a Bruxells che lavorano sui temi di rigenerazione urbana», aggiunge Tonio. Il progetto è stato presentato a Roma durante la conferenza sulla ricostruzione nell’ambito di una mostra, a maggio è stato ospitato al Biennale di Venezia e anche al Congresso internazionale di architettura di Copenhagen varcando i confini italiani che di fatto sono stati varcati ancora Italia visto che ci ha lavorato una squadra internazionale.
Oltre ad occuparsi del progetto di ricostruzione Nadiya, Walter, Massimo e Tonio che si definiscono artisti ma anche artigiani contemporanei organizzano anche il festival “Disimpegno. Appunti intorno all’abitare” che affronta i temi di attualità. «È uno spazio che tiene insieme tutto. Dove ci si incontra, si creano sempre delle relazioni che connettono gli esseri umani ad altre stanze. E il perno su cui ruota il resto. È un disimpegno impegnativo. Saltuariamente come macrohabitat partecipiamo anche ad altri festival con delle operazioni artistiche», aggiungono Nadiya e Walter.
Per poter affrontare la vita e sopravvivere in un mondo influenzato dalle guerre bisogna porsi una domanda un po’ bizzarra: cosa di buono c’è in questo male? Nadiya all’interno del piccolo paese di Cisternino ha trovato una grande comunità ucraina che si è creata man mano con gli ucraini che ci sono arrivati a causa della guerra. «Malgrado il contesto poter comunicare nella nostra lingua un po’ tutti insieme sicuramente molto meglio di quando sei solo in un contesto straniero. Ma a ottobre quasi tutti se ne sono andati, tornati in Ucraina. Per molti è stato un punto di rotta per decidere e programmare la propria vita. In qualche maniera anche questo progetto del cultural park Korabelnyy è un qualcosa che è accaduto per via degli avvenimenti drammatici. L’incontro con Olena, l’architetta, con la quale abbiamo stretto la collaborazione è diventata una nostra amica», aggiunge Nadiya.
Se andate sul sito dello studio Nùevù vedrete quanto sia particolare il loro logo: sembra il tridente ucraino. Eppure originalmente l’idea è stata quella di stilizzare dei trulli. Soltanto dopo se ne sono accorti di questa somiglianza del tutto accidentale. A me, invece, piace pensare che il nostro subconscio trova dei modi per collegarci alla nostra terra che non abitiamo più quotidianamente ma con la quale abbiamo un legame eterno. Ora tra l’Ucraina e l’Italia si è creato un altro legame che speriamo diventi un nuovo strato della moderna storia ucraina.